Sotto questa Mole – 28 novembre
Anche io, lo ammetto, avevo immaginato una Bocca del lupo bis. Un episodio di cinema autoriale italiano che due anni fa strappò lacrime, risate e vinse come miglior film il TFF. C’ho sperato fin da quando mi sono seduto in poltrona e ho aspettato i primi fotogrammi. Ma sono bastati pochi minuti di visione per capire che come speranza, era piuttosto vana. A fine visione in sala stampa si è alzato qualche applauso timido, i c.d. applausi “della bandiera”.
Per me resta tutt’ora un mistero come Mateo Zoni sia riuscito a essere selezionato, con il suo film Ulidi piccola mia, per il concorso di quest’anno. è vero: l’ibrido di un film di finzione scritto e girato come documentario può affascinare e aprire nuovi scenari. Le giovani attrici che recitano se stesse, le loro storie passate e presenti, il tentativo, pure ambizioso, di indagare con l’occhio indiscreto del documentarista l’universo semisconosciuto delle comunità solidali, delle anime perdute e poi ritrovate, delle lotte intestine dei disadattati sociali con i loro fantasmi. E sorvolando pure sulla carenze tecniche del film (low-budget non significa necessariamente low-quality, mentre qui il sonoro è davvero di livello amatoriale), è forse il suo apparire e non essere (o il suo vedere e non narrare, se volete) a emergere come il punto più debole.
Non c’è coraggio nello sguardo di Zoni e nemmeno c’è quel pudore che forse sarebbe necessario. C’è piuttosto un vero e proprio gioco all’inganno nei confronti dello spettatore, una ricostruzione che, fino in fondo, non possiamo dire totalmente falsa o totalmente vera, e per questo mantiene una costante ombra di artificialità su tutta la visione. Un’artificialità che, ancora per scomodare Pietro Marcello, non avevamo minimamente percepito dalla Bocca del lupo , nonostante quell’incredibile e tenerissima inquadratura fissa di parecchi minuti che chiudeva il film.
Qui Zoni sembra scomporsi il più possibile per nascondere lo sguardo (perfino fra i due sedili di un treno, nel momento forse più toccante, o presunto tale) eppure sentiamo il posticcio recitativo ingombrante e fastidioso, come nel peggiore dei reality mascherati da storie vere.
Qui sta il punto, fondamentale: siamo davvero sicuri che l’attingere così a piene mani dal voyeurismo televisivo sia un modo di fare cinema da premiare? C’è differenza, stilisticamente parlando, fra un pianto posticcio di una Ginnasta ripresa dalle telecamere di Mtv e quello della Paola di Ulidi? Non voglio assolutamente parlare di “Reality dei reietti” o di “Grande Fratello in casa famiglia” come hanno apostrofato Ulidi piccola mia alcuni tweets un po’ incazzati dopo l’anteprima stampa. Ma sta di fatto che, con tutti gli sforzi del caso, non può bastare osservare disordinatamente e indistintamente una situazione di precarietà sociale, ricostruirla a tavolino (come e in che modo, mai lo sapremo) e lanciarla come slancio etico, distaccato e poetico. Non solo non basta ma può fare anche arrabbiare (come, avrete capito, è successo a me).
Nemmeno il tempo di sfogarmi con qualcuno che mi ha distratto, e pure calmato, la visione del successivo film in concorso, The Raid, pellicola indonesiana di un regista gallese (Gareth Evans), vera e propria incursione violenta e nichilista nel cinema di genere, a metà fra lo spara-tutto e le arti marziali: un puro divertimento che gioca sulla spettacolarità dei combattimenti kung-fu attraverso improbabili piani sequenza e un certo splatter grottesco, ironico e mai ripetitivo.
Un alverare di assassini che implode ed esplode più volte, lasciandoci frasi memorabili come questa: “Calmare la rabbia e premere il grilletto della pistola non mi piace, è come ordinare cibo d’asporto”. In effetti a Gareth Evans piace cucinare la violenza per bene e mescolarla più volte. E questo, va detto, gli riesce bene.
Un pochetto galvanizzato e rinvigorito tento l’ultima carta per incrociare finalmente un buon film. E stavolta quasi ci riesco pure con Terri, di Azazel Jacobs, film che rientra in quel filone ormai sconfinato delle dramedy selezionate ogni anno dal Sundance Festival. Il “quasi” è d’obbligo, perché è inutile negare che il film di Jacobs si muove narrativamente sulle convenzioni di dramedy simili, su tutte il fortunato caso di Submarine: Terri è uno studente di scuola superiore grasso, disadattato e incompreso che va a scuola in pigiama e nel suo isolamento sociale trova la compagnia di tipi ugualmente bizzarri, fra cui lo stesso preside della scuola, interpretato dal sempre straripante John C. Reilly (alle prese con un ragazzo obeso proprio come in Cyrus, presentato guarda caso a Torino lo scorso anno).
In apparenza il solito coming-of-age dunque, ma che sa impreziosirsi di un ritmo quasi sognante e opaco: Jacobs non si sofferma esclusivamente sull’eccentricità dei personaggi, ma sa anche inserire elementi di imprevidibilità qua e là, come in quel finale che non risolve affatto la situazione di partenza, ma la complica positivamente. In questo modo la formazione non è raggiunta ma latente: e Terri sa comunicare il suo messaggio con modestia, saggezza e senza alcun tipo di retorica su come si deve stare al mondo. E che ci crediate o no è la miglior cosa vista oggi.
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A cura di Daniele Lombardi
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