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The Grey: homo homini lupus

The Grey locandina

Che Liam Neeson fosse un attore fuori dal comune già lo sospettavamo. Il suo particolarissimo stile attoriale era già emerso in Schinder’s List, con quella nomination ad un Oscar che alla fine dei giochi andò al Tom Hanks di Philadelphia. Uno stile basato sulla straordinaria capacità di intensificare la recitazione, di condurla al massimo dell’esasperazione emotiva eppure, nello stesso tempo,  mantenendo una sorta di realismo, di efficace equilibrio fra la tensione del “divenire” con quella dell’“essere”.

Ed è proprio in questo The Grey che Neeson raggiunge il massimo del suo linguaggio espressivo. Intorno a lui lo spazio asettico del nulla innevato gli concede la possibilità di ri-generarsi interamente, di disseppellire la sua identità per vestire quella di John Ottawy, vedovo giunto alla fine delle proprie ragioni di vita, costretto a guidare verso la salvezza un gruppo di operai coinvolti con lui in un incidente aereo. Una rigenerazione che in realtà è molto meno posticcia di quello che ci appare. Perché Liam Neeson ha realmente perso sua moglie, Natasha Richardson, morta tre anni fa in Quebec per un incidente (ironia della sorte) sulla neve. Quello della scomparsa della propria compagna di vita è dunque un fantasma che insegue il Neeson attore in un set che incrocia i drammi della sua vita reale. Dove finisce la realtà e dove inizia la finzione? Questo non possiamo saperlo, ma nei lunghi silenzi dell’attore, nei suoi primi piani spezzati, nello sguardo rivolto al passato perduto di Ottawy/Neeson, è impossibile non percepire la materializzazione di quella solitudine e di quella disperazione che fa da traino per tutta la storia. La capacità di Liam Neeson, tutta europea, di “piantare le radici” ai propri personaggi qui diventa davvero impressionante, spiazzante. E senza più limiti.

Tutto ciò vale l’intero film. E sul resto possiamo anche chiudere un occhio: dal non riuscito eco bergmaniano del “silenzio di Dio”, alla stilizzazione eccessiva di lupi famelici che poco hanno in comune con dei veri animali (e questo ha fatto arrabbiare non poco molti animalisti che hanno lanciato un appello per boicottar e il fim). Eppure, se ignoriamo i rimandi al machismo che ogni tanto sembra incarnare il protagonista di The Grey,  il richiamo alla “legge del più forte” avanzata dal regista Joe Carnahan, assume un altro senso, più profondo ed attuale. Perché per la prima volta in mezzo alla foresta – quella infestata dai predatori-che-danno-la caccia-agli-uomini – non finiscono i pavidi collegiali di Frozen o il ricco esperto di caccia di L’urlo dell’odio. Ma un gruppo di semplici e genuini proletari, padri di famiglia e lavoratori instancabili. Ecco insomma che l’impianto thrilleristico di The Grey si tinge di sociale, non facendosi mancare sullo sfondo sia la guerra in Iraq (e conseguente ”invasione” di un territorio ostile), sia la Crisi economica. Proprio lei, la stessa che fa precipitare (come l’aereo in avaria) la civiltà in un luogo selvaggio dove il Capitale in declino, sotto forma di lupo affamato, divora le classi meno abbienti e più vulnerabili. «Homo homini lupus» disse Hobbes. «We’re the animals!» dirà Ottawy/Neeson. E tanto basta.

Curiosità: Il film va guardato tutto, incluso i titoli di coda. Quello che infatti sembra un finale “aperto” si risolve appena dopo i credits, in un clip “chiarificatore”. Di più non si può dire.

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