La doppia valenza del dolore
A volte, la mattina appena svegli, pare difficile discostarsi da ciò che era realtà fin a poco prima – il sogno – e comprendere la dimensione reale, ovvero la luce appena accesa e la sveglia che suona.
Ripensando al film di Lynch, sembra che il regista voglia rappresentare questa doppia valenza avvicinandosi a certe immagini di Bunuel ne “Le chien andalou” e ai pensieri del surrealismo.
In “Nadja” Breton dice:
“La produzione di immagini nel sogno sempre (…) sono chiamate a giocare certe impressioni molto forti, assolutamente incontaminate dalla moralità, che nel sogno risentono ‘al di fuori del bene e del male’, (…) a ciò che si oppone sommariamente al nome di realtà.”
Questa unione realtà/sogno è un’ anello narrativo con il quale Lynch gioca molto e lo fa brillare scardinando la perfetta consequenzialità di eventi nella mente dello spettatore.
Può ogni cosa avere un suo doppio?
Può essere che la realtà di ogni giorno sia la rappresentazione di un incubo?
La risposta è nel cubo, o almeno così sembrerebbe.
La storia vuole raccontare l’incontro della giovane attrice Betty e di Rita, che soffre di amnesia e vuole scoprire il suo passato. Nella sua borsa solo molte banconote e una chiave blu.
L’incontro con aspiranti registi e mafiosi produttori, vernici rosa, amanti idraulici ed eventi surreali porteranno verso una realtà che è doppia, in un viaggio nel non-conosciuto, nel vago, nel mostruoso.
Il film si sviluppa fondamentalmente in due parti: una prima diacronica, senza nessun flash-back, e una seconda, che trasforma il film in un continuo andirivieni di nomi, immagini e personaggi che sembrano ritornare nuovamente solo per mostrarci come sia facile cambiare in un colpo solo la logica delle posizioni, le convinzioni che lo spettatore si era dato verso ogni caratterizzazione.
Il regista David Lynch prosegue il suo percorso visionario, onirico, irreale, scardinato, già affrontato in “Lost Highway”, ma questa volta adatta una sceneggiatura e attori più solidi dei precedenti, mantenendo un’idea di figura femminile manicheista, divisa tra una morbosa bionda, Betty e una algida bruna, Rita, e cercando di spiazzare lo spettatore attraverso giochi temporali che per nulla aiutano alla comprensione.
Molti sono i fotogrammi da menzionare. In particolare il primo di piano di Diane che percorre Mulholland drive, la stessa scena vissuta da Rita prima dell’incidente.
La macchina si ferma, la portiera di apre, Camilla le prende la mano e le indica una scorciatoia segreta, una lunga scalinata che percorrono insieme sopra una Los Angeles luccicante, mentre veniamo sfiorati da un suono orchestrale, labile, leggero, quasi patetico.
Quale sarà la loro meta?
Viene da pensare alla loro storia appena cominciata, al loro successo come attrici; niente invece, se non la solita eccentrica Coco, già guardiano della prima casa di Betty, e una serie di registi e attori degni dei più facili stereotipi hollywoodiani.
E’ un viaggio attraverso l’incubo, l’umano e il reale, ma anche nel mostruoso e nell’irreale, il contatto diretto verso quella doppia parte del proprio corpo che riesce a sfidare il non-detto, l’inconscio, la paura.
Lo scrittore Chuck Palahniuk dice in “Invisible monsters”: “fai le cose che ti spaventano di più”. E David Lynch a mio parere fa questo; cerca di mostrare quella doppia porta che è il dolore, ma che è soprattutto la paura del dolore, entrando ed uscendo da orecchi mozzati (come in “Velluto blu”); o da cubi blu che dentro sembrano, ahimè, vuoti.
Si vorrebbe allo stesso modo poter entrare in quel cubo e gustare la logica di tutte le convenzioni e illusioni: sarebbe possibile, allora, trovare una propria “scorciatoia segreta”?
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