La verità fa male al mondo
Una scorta armata. E la pioggia battente che cade. Siamo già nella seconda metà del film e di colpo arriva questa scena silenziosa, perfetta. Giulio Andreotti, il divo, resta chiuso nella sua vettura da cui nessuno riesce a farlo scendere. E lui attende, immobile, ombra nella confusione del vetro bagnato, con quell’espressione di Servillo così impareggiabile, così mostruosa. È una scena potente, come tante altre, in questo grande ultimo film di Paolo Sorrentino. E’ in pochi secondi la rappresentazione di quella serratura invincibile che è la gestione del potere, a cui nessuno deve trovare logica (e soluzione) se vuole uscirne vivo.
Perchè la verità, si sa, fa male al mondo.
Il film del regista napoletano è un’agiografia perversa, un’affascinante composizione di tenebre in cui il santo di cui si parla è una creatura diabolica e proteiforme che sfugge al controllo dello stesso enunciatore. Il ritratto che emerge sfugge a qualsiasi necessità meramente biografica per divenire qualcosa di più: una passeggiata spericolata (proprio come lo stile visivo di Sorrentino) nelle trame concise e imperscrutabili del potere. D’altronde, come si dichiara nella stessa pellicola, Giulio Andreotti è la sintesi di duemila anni di storia. In lui convergono tanto Gesù Cristo quanto Lucrezia Borgia; nei suoi tic così incessanti e nelle sue emicranie così inguaribili si scorge l’insindacabile scia del sontuoso cammino della Storia che marcia senza ostacoli.
E non importa se sia il più furbo criminale della storia d’Italia o il più sfortunato tra tutti i perseguitati, la grandezza di quest’opera è nella capacità immaginifica del suo autore che sfugge a qualsiasi impellenza di giudizio da dare (non troppo Caimano morettiano, tanto per intenderci) per essere affresco squisito e godibile, tra Fellini di 8 e mezzo (1963) e Petri di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), di un puro flusso di coscienza.
A Sorrentino non interessano né i dettagli degli eventi (che si diverte a scomporre come un puzzle giocoso) né la cronologia accurata della vita del personaggio (che lascia alle fiction di RaiUno, vedi quella su Alcide De Gasperi nel 2005): ciò che lo affascina (e come dargli torto!) è qualcosa che travalica l’urgenza veristica: è l’indagine della sensibilità stessa dell’uomo politico. Per questo occorre lasciare lo specchio della realtà per calarsi in quello spettro che è lo spirito umano, segnato dai sensi di colpa (il refrain delle parole di Aldo Moro prigioniero) e dalla paura della volontà divina (la verifica costante della confessione in Chiesa). È in questo cuore di tenebra da esplorare che troviamo la raison-d-être del film e della sua ricerca estetica.
Sorrentino, si sa, è un conturbante mistificatore che come pochi sa ben tradire (e svecchiare) il patrimonio italiano neorealistico. Il suo è un occhio ibrido che parte dal reale per mutarlo in un attraente pop-surrealismo-noir, trafitto da una vena cupa che raramente intravede salvifiche uscite di emergenza. Come i precedenti lavori (uno su tutti, Le conseguenze dell’amore del 2004) ogni sua opera è un céliniano viaggio al termine della notte dove la speranza del risveglio non conduce l’uomo al benessere della luce. Ma al protrarsi dell’incubo.
Il divo infatti è ancora qui. In mezzo a noi. E pur da svegli, noi, normali esseri umani, continuiamo a naufragare nei suoi (nostri) misteri.
A cura di Giuseppe Carrieri
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