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Luther in Love

Luther in Love


Ci ritroviamo sempre da Mario. “Prima o poi” come succedeva nella canzone Certe notti di Ligabue, o regolarmente, come all’appuntamento settimanale con la Domenica Sportiva e Controcampo nel weekend notturno.
Mario in questo caso ha un cognome che è un artificio retorico preciso: semplificazione. All’interno del vasto repertorio di strutture formali del discorso (figure retoriche) che lo scenario socioculturale e cinematografico in particolare propone, quello della semplificazione è un topos identificabile sia nell’ultimo film di Gibson che in quello di Eric Till, sulla vita di Lutero.
La pellicola vede la Chiesa cattolica romana ritratta solo come una banda di bricconi dedita al marketing delle indulgenze per la realizzazione di San Pietro o come una fitta rete di intelligence che deve a tutti i costi infilzare l’eretico allo spiedo. Una linea di demarcazione geografica ritaglia i confini del Vaticano come un’ipotetica Sodoma, priva di qualsiasi spirito religioso. Allo stesso modo, nel film di Gibson si notava una semplificazione narrativa e di raffigurazione dei nemici di Gesù, per i quali la sola funzione era quella di spargere il sangue e crocifiggere; l’immagine è quella di barbari assassini.
In Lutero la semplificazione avviene prevalentemente dal punto di vista narrativo (il budget da produzione TV non avrebbe permesso né richiesto effetti alla Passion) e della caratterizzazione dei personaggi. Anche dal punto di vista più strettamente teologico, la figura di Lutero è vista come quella del sezionatore dottrinale, artefice di uno spaccamento improvviso e irrecuperabile, contrapposto alla cristianità cattolica. Si perde l’aspetto fondamentale del Lutero che è stato cattolico fino in fondo, che ha fatto parte della storia di un’unica Chiesa, formatore di un patrimonio cristiano comune e ancora percepibile.
Semplificare e schematizzare, mettere paletti e riempire delle caselle: mozzare con l’accetta le sfumature per veicolare volontariamente o meno messaggi ridotti a minimi termini e perciò più fruibili.
Lutero è interpretato da Joseph Fiennes, scelta che dal punto di vista iconografico si scontra con la realtà storica. Martin non era esattamente un marcantonio, se leggiamo scritti e guardiamo i suoi ritratti. Una necessità di rappresentazione estetica e di “star placement” che rientra nei cliché di una parte di cinema e che non meraviglia. Tutto il progetto sarebbe dipeso dall’attore che avrebbe interpretato Lutero. Meraviglia però l’interpretazione: Lutero è un rivoluzionario sessantottino, semplice, carismatico, e spavaldo, leggero e intenso. Sembra ancora di vedere il passionale Shakespeare, innamorato questa volta del Signore, anziché della dolce Viola.
Fanno storcere il naso anche le imprecisioni storiche (la citazione di Lutero della divisione in versetti del Vangelo, divisione che all’inizio del Cinquecento ancora non esisteva, e l’utilizzazione di un vocabolario greco-tedesco ancora non realizzato all’epoca del riformatore). Dettagli che si sovrappongono a episodi di fantasia creati ad hoc per dare al pubblico la sensazione della forza degli insegnamenti (il tormento stile “L’esorcista” con il demonio, e il travaglio-melodramma di rottura con Papa Leone X).

Questo è l’ultimo film di Peter Ustinov, morto poco dopo le proiezioni del film. La sua carriera d’attore comincia a 17 anni, vende la sua prima sceneggiatura (The true glory) a 24, e dirige il suo primo film (The school for secret) a 25. Ha una nomination per il ruolo di Nerone in Quo Vadis nel 1951 e vince due Oscar per Spartacus (1960) e Topkapi (1964).

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