Identità perdute…e ritrovate
L’incipit è lisergico, affascinante. Geometrie futuristiche, luci livide, colori denaturati, l’atmosfera cupa e spiazzante. Si viene proiettati in un mondo alienato ed alienante, claustrofobico, la cui povertà emotiva e la cui monotonia spingono Jeremy Northam a mettere in gioco la propria identità pur di uscire dagli schemi che rigidamente lo ingabbiano.
All’interno di questo mondo così sfumato le uniche immagini che risultano nitide sono quelle fredde ed inquietanti delle figure geometriche, onnipresenti sullo sfondo della scenografia, a volte torreggianti, a volte appena percepibili, ma comunque sempre incombenti, pronte a soggiogare lo spirito del protagonista e a ricordarci come il nostro mondo sia divenuto schiavo di meccanismi, sociali e tecnologici, dai quali è ormai difficile scappare.
Lo schiavismo tecnologico di una realtà moderna sempre più alienante, la perdita della propria vera identità e il desiderio di riscoperta di sé attraverso la fuga dagli schemi preconfezionati vengono trattati con grande capacità immaginativa e abilità visiva. Il retrogusto di déjà vu diventa sempre più insistente con lo scorrere della pellicola e si arriva a domandarsi:” Ma questo film non l’ho già visto?”. Risulta un po’ imbarazzante elencare il numero di rimandi, citazioni e piccoli plagi al filone fantascientifico di cinematografia e letteratura. Argomento buono per un pubblico di cinefili al termine della proiezione potrebbe essere il cimentarsi su chi abbia riconosciuto il maggior numero di rimandi ad Atto di forza (Total Recall, Paul Verhoeven, 1990), Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 1999), Gattaca (id., Andrew Niccol, 1997), Paycheck (id., John Woo, 2003), I soliti sospetti (The Usual Sospects, Bryan Singer, 1995)… film che sembrano essere stati prelevati e poi mischiati assieme pezzi di questi vari film, senza però riuscire a ricrearne, ovviamente, lo spirito di originalità.
Il risultato è un film discreto, altalenante, che alterna notevoli trovate visive ad elementi un po’ troppo scontati, senza riuscire ad elevarsi al di sopra di quei capolavori che sembrano averne ispirato la realizzazione. In sostanza Cypher è un film sulla perdita dell’identità che soffre di una forte crisi di identità, peccato perché ci eravamo appassionati ai drammi Roger O. Thornhill e alla sua ricerca della vera identità di George Kaplan ma l’artefice di quel “mondo possibile” si chiamava Alfred Hitchcock.
A cura di Carlo Prevosti
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