Bianco e nero ideologico
Tutto è cominciato nel lontano 1986 con l’omonimo corto interpretato da Benigni e Steven Wright, proseguito nel 1993 con Coffee and cigarettes-somewhere in California (con Tom Waits e Iggy Pop) vincitore a Cannes della Palma d’oro per il miglior cortometraggio e concluso (per ora) con i recenti episodi con Cate Blanchett e Alfred Molina. Più che di un cast Jarmusch si è avvalso di un gruppo di amici nonché artisti che con autoironia hanno giocato con i propri difetti. Un Benigni surreale che tiene in una mano tremante l’ennesimo espresso, Iggy Pop e Tom Waits ex fumatori che si concedono un ultima sigaretta, una schizofrenica Cate Blanchett che si sdoppia in sua cugina, Bill “Fotti fantasmi” Murray drogato di caffè e cameriere in incognito, … Tutti a dissertare sui temi più disparati, dal complotto sulla morte di Elvis, ai ghiaccioli al caffè, alla Parigi di inizio secolo fino all’utilizzo della nicotina come insetticida. Argomenti slegati in apparenza ma disseminati nella sceneggiatura di richiami e citazioni tra cui il tormentone delle invenzioni di Nicolas Tesla, scienziato autore di invenzioni pulite e innovative come sottolinea il regista. Con riferimento ai dialoghi occorre evidenziare l’assurdità di doppiare un’opera del genere in cui il fascino delle immagini è imprescindibile dal linguaggio e dalla sua tonalità. Eclettica la colonna sonora in cui si alternano musica strumentale, jazz e anni 60.
Linguaggio visivo
«Design minimalista e un unico tema visivo» che mira, attraverso una ripetizione che diventa stile, a trasmettere l’essenziale attraverso inquadrature fisse sugli attori e riprese dall’alto dei tavolini dove giacciono sparse tazze traboccanti caffè nero e portacenere colmi di mozziconi. Affascinato dalla qualità luminosa del bianco e nero, Jarmusch staglia le sue figure come ombre sulle pareti dei bar bilanciando la potenziale freddezza delle immagini con l’onnipresente alone di fumo che avvolge la scena e con il tono intimo delle conversazioni. «Un sogno in bianco e nero realizzato in 18 anni» un film privato girato in un’atmosfera rilassata e poetica in cui la scelta estetica e quasi ideologica della pellicola priva di colore è presente negli ingredienti (caffè e sigarette), nella scenografia (tavolini a scacchi, pavimenti, etc.) ma anche nell’accostamento degli interpreti che impersonano camerieri bianchi che servono clienti neri o viceversa.
Autori e artigiani
Il regista venuto dall’Ohio non vuol sentir parlare di cinema indipendente, un aggettivo che «sta diventando un marchio come tanti, svuotato spesso di contenuti e di idee», e contesta la concezione autoriale del cinema ritenendolo un’esperienza collettiva di artigiani che a volte riescono a raggiungere l’arte. In un momento politico-sociale in cui una Hollywood priva di memoria, con buona pace di Bogart & Co. , permette di fumare solo a tossicomani, banditi e prostitute, ci gustiamo questa piccola opera scorretta, senza rabbia, impertinente ma delicata, perché Jarmusch come sempre non giudica, «si limita» a mettere in scena.
Curiosità: Jim Jarmusch nasce ad Akron, Ohio nel 1953, già assistente alla produzione nel film di Wim Wenders Lampi sull’acqua (Nick’s movie, 1980), esordisce nella regia con il lungometraggio Permanent vacation (1982) e nel 1984 con Stranger than paradise vince la Camera d’oro al Festival di Cannes e si rivela alle platee europee. Nel 1986 gira Daunbailò interpretato da Benigni e Tom Waits. Il suo capolavoro è considerato Dead man (1995) con Johnny Depp e Robert Mitchum alla sua ultima apparizione. Tra le altre opere Mistery train (1989) e Ghost dog – Il codice del samurai (2000). L’eclettico autore americano è apparso occasionalmente anche come attore (Blue in the face, 1996, di Wayne Wang). Il film è stato presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia.
A cura di Raffaele Elia
in sala ::