Ritorno al passato
Si potrebbe definire The butterfly effect più che thriller un film “parapsicologico”, dove i misteri della psiche sconfinano nel soprannaturale. Questo è semplicemente l’elemento del film che consente ai registi di mettere in scena e collegare le varie realtà alternative che avrebbe potuto vivere il protagonista, mostrando come l’esistenza di un individuo sia la summa di eventi contingenti, occasioni, scelte, che plasmano la vita e l’individualità stessa di un uomo. Quindi la trama prende spunto solo dall’esperienza umana e va a sondare tutte le possibili pieghe dell’esistenza: la vicenda diventa così un vero rompicapo per la sempre più smarrita ricerca di un sé accettabile, stabile e definitivo per Evan. Questi torna nel passato per cancellare ciò che non avrebbe mai voluto accadesse nella sua vita, ma ogni cambiamento porta conseguenze disastrose e in questo modo non può trovare mai pace, né la formula per una vita migliore delle altre. «So chi sono e non ho bisogno di niente che me lo ricordi» dirà tuttavia Evan alla fine. La vita di ciascuno di noi è comunque nostra, fatta di scelte nostre, fatti vissuti da noi, cambiare qualcosa vorrebbe dire non essere più noi stessi, sdoppiarsi infinitamente nei mille rivoli dell’esistenza. In questa personalissima odissea fatta di rimbalzi fra infanzia e gioventù, Evan è sempre solo. La sua storia ha dell’incredibile e nessuno può credergli, né Kayleigh, né lo psicologo, ma questa del soprannaturale è solo un’iperbole: la vita di ognuno di noi è infatti soggettiva e nessun altro può capirla, si è soli con se stessi, è impossibile pensare di comprendere i motivi di una persona, i suoi pensieri, le sue scelte. Così anche la pazzia diventa un fatto relativo: Evan è creduto malato mentre in realtà si sta solo chiedendo «Chi sono?».
Se il quesito di fondo del film suscita il suo fascino e la trama riesce avvincente, al contrario frequenti sono gli svarioni formali. Battute improbabili ed inutili (come quando la madre di Evan sta per morire di cancro, il figlio le chiede quando abbia iniziato a fumare); situazioni inverosimili e poco credibili, bambini serial killer a sette anni poi redenti sulla via di Damasco. Inoltre a lungo andare può riuscire divertente provare a indovinare quali saranno le ennesime disgrazie di Evan nella nuova vita. Il finale tuttavia è molto bello e suggestionante anche se, probabilmente, sembra come se il regista avesse voluto uscire in qualche modo da un labirinto troppo intricato che si era costruito intorno, scegliendo la soluzione più comoda, anche se molto sofferta per il personaggio di Evan: la rinuncia all’amore per una soluzione di ripiego non sembra avere infatti il dovuto peso drammatico nella vita del protagonista. Insomma, l’impressione è che, dopo essere stato in prigione, mutilato, abbandonato, internato e quant’altro, continuando sempre a fuggire davanti ai problemi, questo Evan se la cavi anche fin troppo bene, mostrando di non aver neppure imparato molto più di non dover giocare troppo con i suoi poteri soprannaturali.
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