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I giorni dell’ira

I giorni dell’ira

Le mele di Grace.

Pare che da qualche anno Lars von Trier si sia convertito al cattolicesimo. Nel 1996 Le onde del destino sanciva di fatto l’inizio di una nuova fase nel cinema del regista danese, caratterizzata da un susseguirsi di parabole su temi quali il peccato, il perdono, la redenzione, il sacrificio. E’ in quest’ottica che va a collocarsi anche la sua ultima opera, in bilico costante tra il sermone domenicale, il messaggio filosofico (o pseudo-tale, purtroppo) di un auspicabile, ma irrealizzabile, umanesimo sartriano e la dimensione favolistica, tra l’altro evocata dichiaratamente dal regista con la scelta delle Montagne Rocciose come luogo di ambientazione della storia per quel nome così fortemente tautologico e favolistico: Grace è Giobbe (come il Danny Rose di Woody Allen) mentre sopporta di portare su di sé tutto il male di Dogville (e del mondo intero, come viene esplicitamente rimarcato); ed è Eva in un giardino del male da cui tenta di fuggire, vera e propria donna-mela (“succosa al punto da sgocciolare” e “costretta, come quei frutti a maturare a gennaio”); splendida tentazione più che tentatrice per tutti gli abitanti di sesso maschile e tentata dall’aspetto rassicurante della piccola e anonima comunità che le offre ospitalità. Ma è anche Cappuccetto Rosso nella pancia del lupo, eroina alle prese con un percorso iniziatico che porrà fine alla sua età dell’innocenza, Biancaneve che si circonda di “nani” di porcellana (esattamente sette, come sette sono pure i peccati capitali) e addenta la mela (ancora) della presunzione: quella di considerarsi un modello, inarrivabile per chiunque, di virtù ed eticità, al punto di non pretendere mai nulla da chi la circonda, né morale, né rispetto (quello che Chuck e gli altri invece pretendono da lei, sotto forma di prestazioni carnali); e neppure una parvenza di umanità.

Grace, la strega, la santa e le altre.

E’ questo senso estremo del sacrificio a legarla a Bess, proprio la protagonista de Le onde del destino, dalla quale prende le distanze però quando decide di abbattere la punizione su quell’umanità degradata, ribaltando per una volta il masochismo tipico di tutti i personaggi del regista in un inedito sadismo rivolto verso il prossimo. E se le fiamme che divorano Dogville ricordano quelle che avvolgono il castello De Winter in Rebecca, la prima moglie, e la congrega rurale del paese manifesta la stessa chiusura della sofisticata e altrettanto tribale alta società newyorkese de L’età dell’innocenza, il tormento di Grace rimanda alla passione di Giovanna D’Arco e il suo ordine di distruzione riecheggia l’anatema di un’altra donna ancora, giunta in una comunità ostile nei confronti della sua diversità e gelosa della propria identità, tradita anch’essa da colui di cui più si fidava: la strega Anne di Dies Irae, non a caso altro capolavoro di colui che per von Trier rappresenta, con i suoi ritratti femminili, un sicuro termine di riferimento, se non un dichiarato modello: la perfetta costruzione dell’immagine del cinema di Dreyer è distante anni luce dallo stile fatto di videocamera digitale a mano e tutto giocato sul fuori fuoco di von Trier, ma per entrambi, sorprendentemente, si può parlare di piena purezza formale.

Fra la gente che si lascia piovere addosso.

Due sono le parole chiave, l’arroganza di stabilire e soprattutto di non stabilire quando verrà il diluvio universale e la cecità: di chi non vede oltre il proprio naso, fallendo sistematicamente (Tom); di chi non vuole o non riesce a vedere le evidenti responsabilità (Vera, l’uccisione dei cui figli, che infatti portano tutti nomi greco-mitologici, richiama l’episodio dei Niobiodi); di chi cieco lo diventa (come la Selma di Dancer in the dark) e vede più e meglio di tutti coloro che vi sono attrezzati, ma che blocca il suo sguardo con tende scure e pesanti come il loro è impedito da mura invisibili quanto impenetrabili, tutti indistintamente incapaci o rifiutandosi di cogliere la miseria di una dimensione geografica, sociale ed esistenziale ristrettissima, e conseguentemente di avvertire il desiderio dell’altrove (nessuno lascia mai Dogville, come avviene sul set del The Truman Show o a Gotham City) e quindi del diverso (qualunque straniero è accolto con timore e diffidenza). I teli alternativamente bianchi o neri (a seconda delle ore del giorno) che delimitano il brechtiano impianto scenico (con ogni strada e costruzione che reca scritto su di sè il proprio nome, con effetto ovviamente straniante) e rappresentano (annullandolo) l’orizzonte visivo, concettuale e spirituale dei cittadini di Dogville ne sono il concreto sviluppo e la piena raffigurazione. Il materializzarsi del cane che chiude il film è lo stesso dei vermi repellenti che introducono Velluto blu: Cerbero più che dimezzato ci scaccia rabbioso dal suo territorio, come fanno i suoi concittadini, tutti intenti a rosicchiare il proprio rancore, il proprio torsolo, il proprio osso. Il poco tempo. Tutti al guinzaglio dell’innata paura di cambiare, di “accettare”, incatenati all’unica, per loro, realtà possibile. L’ispirazione per Dogville è stata suggerita a von Trier dalla canzone di Bertold Brecht e Kurt Weill, tratta da L’Opera da tre soldi, “Jenny dei pirati”, la quale contiene il tema della vendetta. Il film rientra nel progetto della trilogia (la terza del regista) USA-land of opportunities, il cui secondo capitolo, Manderlay, è attualmente in pre-produzione. Tale trilogia prosegue il percorso conoscitivo e critico sugli Stati Uniti e la crudeltà del sistema americano cominciato con Dancer in the dark: non a caso il tradizionale canto ‘God bless America’ intonato dalla comunità di Dogville durante il pranzo del Ringraziamento coincide con il repentino e totale cambio di atteggiamento ai danni di Grace, nel momento in cui continuare ad aiutarla può diventare pericoloso e controproducente. Ad un tale punto di vista va fatta risalire la scelta quindi di ambientare la vicenda proprio negli USA durante il periodo della Recessione e quella di far scorrere sui titoli di coda una serie di fotografie, alcune delle quali prodotte dalla FSA (Farmer Security Administration); ente creato dal governo Roosvelt allo scopo di testimoniare con reportage la difficili condizioni di vita della popolazione rurale durante gli anni ‘30. Tali fotografie possono facilmente essere riconosciute anche come base storica e iconografica di Furore, capolavoro di John Ford tratto dal romanzo di Steinbeck.

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