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I pellerossa di Campolaro

I pellerossa di Campolaro


La difficoltà maggiore nella visione del film di Milani deriva dalla netta sensazione di non riuscire a partecipare al dramma dei suoi protagonisti nonostante l’alta valenza tragica delle loro storie. Il timore, dal sapore vagamente snob, di girare un film di genere ha ripercussioni dirette sulle scelte tecniche e sulla sceneggiatura che sembra scritta con l’ossessione di trattare più argomenti e visuali possibili. La crisi di identità dell’operaio, il ruolo superato del sindacato, la tentazione della fabbrichetta, la critica alle multinazionali, al mercato del lavoro globalizzato e al modello USA, con tanto di parallelismo tra indiani e operai, appaiono francamente troppi temi per un solo film. Il contrasto tra fabbrica/prigione e natura/libertà, visualizzato nell’onnipresente pinnacolo della ciminiera contrapposto alle panoramiche dei boschi, aggiunge poi un tocco bucolico estremamente ingenuo. Il ritmo altalenante è bruscamente alimentato dal discutibile gusto per il gesto eclatante senza alcuna attenzione alla continuità narrativa e stilistica.

“La maledizione della commedia all’italiana”
Privo delle sfumature e della poesia malinconica de “I lunedì al sole” (Fernando Leòn De Aranoa, 2002) e della lucidità di Ken Loach, il film, prevedibile e tecnicamente non perfetto, è anche disturbato da una recitazione troppo esibita. Sotto l’implacabile giogo dell’obbligato pedaggio da pagare alla Commedia all’italiana, i primi piani frontali dei protagonisti non fanno che amplificare l’impressione di osservare personaggi-caricatura che, seppure interpretati da ottimi attori, non trasmettono le emozioni necessarie all’identificazione dello spettatore; anche Orlando sembra recitare la maschera di se stesso, a tratti cercando di emulare scopertamente Totò, come nella scena dell’arrivo al Parlamento Europeo. Il regista, già Assistente del maestro Monicelli, non ne ha purtroppo assimilato l’ironia feroce e la capacità di creare storie dal meccanismo perfetto, in questo caso non coadiuvato adeguatamente dalla sperimentata collaborazione (“Auguri professore”, 1997, “La guerra degli Antò”, 1999) con Domenico Starnone.

“Un’occasione perduta”
Dispiace che un tema così importante, ispirato ad una vicenda accaduta in Abruzzo nel 1999, sia stato trattato senza un forte progetto stilistico-narrativo alle spalle. Anche la colonna sonora, che alterna pezzi dei Cold Play, Jam e Clash, stona visibilmente con le immagini e le atmosfere del film. In questo contesto perde ogni forza e credibilità il grido indignato lanciato, con qualche ragione, da Placido nel corso della conferenza stampa del film: “E’ possibile che un film va a Cannes solo se è morettiano?”. Esisteva sicuramente una maniera più ispirata per raccontare il sogno rattrappito del gabbiano ipotetico cantato da Giorgio Gaber a cui non è rimasta neanche l’intenzione di volare!

Curiosità: In una scena del film assistiamo al primo nudo integrale (di schiena) di Silvio Orlando che ha così commentato: “Qualcosa bisogna pur inventarsi per mandare la gente al cinema!”.

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