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Corpo nudo in macchina

Corpo nudo in macchina

Una nuova Lolita si lascia alle spalle vecchi problemi psichiatrici per ritornare nel suo mondo delle favole: padre alcolizzato, madre iperprotettiva, sorella-Barbie. Circondata da oggetti da bambola, in una deliziosa cameretta a tinte pastello, la piccola Lee si ferisce con lamette e punte affilate, perché ossessionata da una famiglia infantile, che non la lascia libera. Di crescere.
E’ una storia di normalità adolescenziale, in fondo, come normale può essere l’impiego di segretaria presso uno studio legale. Una normale storia di formazione verso il mondo adulto.
Ma è soprattutto la storia eccezionale di una donna e del suo corpo e di ciò che quel corpo è in grado di raccontare. Un dolore troppo forte il suo, reso visibile nella carne, nel sangue e nelle cicatrici, perché è l’unico modo per controllarlo. E questo corpo comincia a crescere quando incontra un uomo che può capirne il messaggio: lo Spader-giardiniere scopre la forza dolorosa che proviene dalla pelle del bocciolo-Lee, sente il suo dolore che le scorre nelle vene con la forza di una passione. E in quel momento, per entrambi, l’umiliazione fisica non cancella più il corpo, ma diventa la sua linfa, rendendolo sempre più sensuale.
Crash per famiglie. Lo stereotipo del rapporto segretaria-principale nasconde lo stesso scheletro di senso: la libertà di conoscere il proprio corpo e farne ciò che si vuole. Accettare il dolore come parte integrante di sé ha lo stesso valore che trasformarlo in piacere, vivere con esso e accettarlo.
Nell’ultima scena, la pelle nuda di Lee canta la sua liberazione: sentirsi finalmente bella è per lei liberare il suo corpo nel desiderio, liberare le cicatrici nascoste dai vestiti e lasciare che il suo corpo racconti il dolore passato. Qui il film finisce, ma potrebbe incominciarne un altro: nell’ultimo sguardo silenzioso di Lee alla mdp, c’è tutto il male che le parole non possono raccontare, ma che il corpo può mostrare con violenta evidenza.

Curiosità: il primo film di Shainberg, Hit me, del 1998, ottiene ottime critiche per l’interpretazione di Elias Koteas, l’inquietante Vaughan di Crash di David Cronenberg. Regista per la casa di produzione pubblicitaria Lunch, è al suo secondo lungometraggio dopo varie esperienze come produttore indipendente e sceneggiatore.

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