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Dissolversi in un mondo

Dissolversi in un mondo

La città incantata del titolo è in realtà un bagno termale per spiriti, che spicca su un territorio sterminato e ricoperto dalle acque, vera e propria dimensione parallela al nostro mondo. Ancora una volta, all’edizione italiana di un film è assegnato un titolo che non sembra frutto della visione del film medesimo; o quantmeno di una qualche meditazione. Qui si tratta di imprecisione, ma a volte i distributori si segnalano per vere e proprie sciatterie: il caso del recente “Il ladro di orchidee” di Jonze è esemplare: è un vero e proprio traviamento dell’originale “Adaptation”. (Fine della polemica.)
Una novella Alice, di nome Chihiro, giunge nel mondo di cui dicevamo non per sua colpa: vi è portata dalla curiosità dei suoi genitori; a lei, già triste per il trasloco che l’ha separata da amici e luoghi cari, di cambiamenti deve sembrare di averne già subiti abbastanza. L’ingresso nel wonderland è grazie ad un tunnel, che sfocia in una sorta di chiesa: fuori di essa, per la piccola sarà l’iniziazione.
Hayao Miyazaki, gran maestro giapponese di cinema d’animazione, due anni dopo lo splendido, epico “Princess Mononoke”, ritorna con un’ulteriore meraviglia, giustamente premiata con l’Orso d’oro alla berlinale 2002 (ex aequo con “Bloody Sunday” di Greengrass) e quindi agli Oscar di quest’anno, quale miglior film d’animazione: “La città incantata (Spirited away)”.
La parte iniziale dell’opera stupisce per la grazia e l’equilibrio del disegno; a colpire è soprattutto la resa dei paesaggi, l’incanto di una natura di cui si ha l’impresione di poter cogliere tutta la sensualità e la fragranza: le onde che il vento genera sull’erba alta, il fresco della buia volta d’un bosco, il baluginio dei riflessi dorati sul mare. Ma appena si fa notte, e la “città” prende vita, popolandosi di moltitudini di spiriti-abitatori ispirati al pantheon animista della tradizione nipponica, dunque appena dopo essersi lasciati un mondo alle spalle, a colpire è il fuoco d’invenzione, la vivacità del regno che Myazaki ha voluto creare e nel quale –noi e Chihiro- siamo capitati. Dunque benediciamo i genitori della bambina – nel frattempo trasformati in maiali a punizione d’ingordigia – per averla così sconsideratamente cacciata in questo guaio, e per averci così arbitrariamente coinvolti.
C’è davvero, nei fuggevoli centoventidue minuti durante i quali il film ci sequestra, di che riempirsi gli occhi, tanta è la bellezza che passa sullo schermo, e viene da ridere a considerare un lungometraggio come “La città incantata” solamente “un cartone animato”, e dunque volgarmente considerato opera destinata ai più piccoli: anzi questi ultimi, di fronte a minuti interi di prolungati silenzi, unico accompagnamento il soffio del vento, resteranno perplessi, assuefatti come sono al convulso martellare di tanta fracassona odierna produzione, anche disneyana, anche giapponese.
Una sequenza come quella del viaggio in treno, compiuta da Chihiro per salvare una vita, assorta traversata di un deserto d’acqua dal quale solo emergono i due binari della ferrovia, in compagnia di malinconici viaggiatori-ombre che forse non sono altro che le larve di noi abitanti del mondo reale, questo momento di poetico e delicato “durare” tocca forse l’apice di una parabola meravigliosa che, nell’infinito istante che precede lo strazio della discesa, del ritorno al reale – il buio sullo schermo, le luci in sala-, imprime nel cuore un rimpianto e una certezza: lo struggimento di saperci morti con il dissolversi di un mondo, la consolazione di essere pronti a rinascere da un’altra parte, dentro un’altra storia.

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