Spike continua a farla giusta
“La Venticinquesima ora è un mio omaggio a New York, una città che amo e odio allo stesso tempo, una città ferita per cui provo compassione ma che anche delle stesse responsabilità, esattamente come il protagonista del film.”
La città è sempre la stessa: New York. Quella di “Fa la cosa giusta” e “SOS”, di “Mo’ Better Blues”, “Jungle Fever”, “Clockers” o “Malcolm X”. Quella in cui Spike Lee da quasi vent’anni ambienta le sue storie, come da prima di lui Scorsese e Woody Allen.
Non esattamente la stessa: non più Harlem o il Bronx, ma Manhattan. Non più le comunità nere, italiane o portoricane, non più affreschi corali, non più tensioni razziali pronte a dare il via a una violenza improvvisa, ma un giovane pusher bianco, ricco, che si trova a vivere le sue ultime ventiquattro ore da uomo libero.
Un tono diverso da quello a cui il regista ci aveva abituato: sicuramente più intimista e individuale, con la voglia non di raccontare una realtà attraverso vari personaggi ma di concentrarsi su un uomo “in una particolare giornata della sua vita a New York, il giorno in cui è arrivato alla resa dei conti” per usare le sue stesse parole.
Nuovi quartieri, nuovi personaggi, nuovo tono, ma niente della sua forza è andato perduto: aiutato da uno strepitoso protagonista (è Edward Norton il più grande attore della sua generazione, degno erede di De Niro, Pacino o Depp) e dagli altri pochi co-protagonisti (tutti straordinari a cominciare da Seymour-Hoffman altro talento da tenere d’occhio) Spike compie una riflessione profonda sulla colpa e la redenzione, creando un film di rara intensità che va dritto al bersaglio, colpendo al cuore prima che alla ragione.
Un film di un artista complesso e maturo, una summa del suo stile (sequenze iperframmentate e montate si alternano a lunghissime inquadrature, la musica utilizzata come parte integrante del racconto, uso vario di luci e colori) per un contenuto apparentemente diverso.
Non solo la descrizione di un uomo, ma anche un omaggio alla sua città ferita, metaforicamente rappresentata dai tre amici: gli affari (Pepper è un broker da romanzo di Tom Wolfe); la cultura (Hoffman è un professore di letteratura ) e la malavita (il pusher protagonista). Non solo una città, ma una nazione intera: che sta cercando di ricostruirsi (Lee mostra coraggiosamente per la prima volta nel cinema Usa l’agghiacciante cantiere di Ground Zero).
Per quest’ennesimo capolavoro alcuni hanno scomodato i concittadini del regista e compagni di viaggio, Woody Allen (per “Manhattan) e Martin Scorsese (soprattutto di “Mean Streests” e “Taxi driver”). Dopo una sequenza prologo il film si apre con immagini della città di notte su cui scorrono i titoli di testa, ma non c’è il bianco e nero scintillante del film di Allen né la rapsodia in blu. È un’altra città: ferita, oscura, i due fasci di luce a ricordare l’undici settembre.
Una città in parte distrutta, ma non luogo di follia e violenza come in Scorsese.
Dallo strepitoso ritratto collettivo di “Summer of Sam” il salto è grande, ma il tutto non si riduce a intenso minimalismo: non siamo dalle parti di Carver. Se si devono trovare modelli letterari si deve andare più indietro nel tempo, forse addirittura a Sofocle.”Un film che parla di scelte e delle relative conseguenze, di senso della responsabilità e della sua mancanza.”
“Edipo a New York”
L’affinità con la tragedia greca non si esaurisce solo nel rispetto totale delle tre unità (tempo, luogo, azione): il protagonista è alla resa dei conti, ha commesso una colpa ed è alla vigilia della sua espiazione.
Tutto è già successo e altro succederà, ma non sono gli eventi, i fatti a interessare il regista: il momento della perquisizione in cui la sua vita cambia del tutto o quello dell’interrogatorio alla centrale sono rievocati in flashback, così come li ricorda Monty.
Non racconta una serie di eventi, ma l’impatto che questi hanno su un uomo, tutto è già stato commesso, è già avvenuto: quello che si vuole raccontare riguarda l’uomo, non il mondo.
Non fatti, impressioni.
Il tutto nelle tre unità, un protagonista che è sempre al centro della scena e pochi, ma significativi, altri personaggi: i due amici, la fidanzata e il padre. Tutti alle prese con la loro storia, la loro coscienza, i loro sensi di colpa.
Almeno quattro i momenti di grande cinema: il fuck-you-monologue di Monty allo specchio con visualizzazione incorporata, il dialogo Hoffman-Pepper in continuità di ripresa sulle macerie del Ground Zero, la sequenza del primo incontro tra Monty e Naturelle (c’è ancora un modo nuovo per raccontare uno degli episodi più visti al cinema!) e l’ultimo, straziante incontro-scontro dei tre amici prima dell’addio definitivo.
L’apparizione di Rosario Dawson-Naturelle fasciata in un vestito argento può causare seri problemi ai malati di cuore.
Per alcuni il regista afroamericano è ancora l’enfant prodige di “Lola Darling” e “Fa la cosa giusta”: l’unico esponente di un black cinema che mescola con abilità il jazz e il rap per parlare delle tensioni razziali metropolitane, con un linguaggio vicino a quello dei videoclip. Non molto di più.
Al contrario Spike Lee è uno dei pochi registi oggi in circolazione a raggiungere, che racconti la vita di uno dei più grandi personaggi della cultura afroamericana, una vicenda di cronaca nera metropolitana o l’amore per il jazz, una dimensione a cui la cultura americana tende istintivamente e che solo raramente centra in pieno: quella dell’epica.
Quando avviene non possiamo che ringraziare di cuore.
A chi scrive “Lee è tornato grande” o “Lee supera se stesso”, quando mai Lee è stato piccolo? Quando è uscito “Malcolm X” o “Sos” dove eravate?
Vaffanculo New York
di Sergio SOzzo
Giornalista: “Lei è un moralista?”
Spike Lee: “Certamente sì.”
Da un’intervista apparsa su “Il venerdì” di Repubblica
Spike Lee è molto arrabbiato. I suoi newyorkesi naturalmente non sono di origini americane, e per sopravvivere o spacciano droga per poi girare coi macchinoni d’epoca, o diventano dei cinici e avidi Michael Douglas a Wall Street con vocazioni dongiovannesche, o si riducono ad insegnare letteratura a 4 studenti svogliati, cercando di reprimere le pulsioni sessuali che provano per la seducente e sinuosa allieva 17enne, la quale può stare in giro per discoteche fino alle 4 tanto a sua madre “non gliene importa niente… a quest’ora sarà a casa del suo fidanzato…”. Già, i genitori… sono degli brandeschi ubriaconi che girano sì con la bandiera americana che svolazza dall’antenna dell’autoradio della macchina, ma che poi ritengono il deserto “il posto più bello del mondo… nessuno che ti suona il clacson contro, nessuno che ti infastidisce, nessun matto per le strade…”. Gli amici ti tradiscono, della fidanzata non puoi fidarti, i poliziotti sono dei bastardi, e la bandiera a stelleestrisce conficcata là in mezzo alle macerie di Ground Zero è così infinitamente piccola in confronto allo sfacelo circostante che per riuscire a individuarla ci vuole uno zoom in. Per tutti gli altri, da Bush a Bin Laden, c’è uno sproloquio di 10 min. buoni del nostro Ed Norton (che continua a ostentare una recitazione tanto formidabile quanto arrogante) dove vengono mandati deliziosamente a fare in culo. E la speranza? Non era l’America per Springsteen (che fa capolino dai titoli di coda) “the land of hope and dreams”? E’ rilegata in uno struggente bellissimo quarto d’ora conclusivo, che poi però si rivela essere unicamente un sogno a occhi aperti. Spike Lee è come il fantomatico Dj Dusk della sequenza in discoteca: inizia da giovane, stupisce tutti per tecnica e virtuosismo, eppure “preferivo le sue prime cose”. Ma i suoi film continuano a essere gli infuocati e coloratissimi sermoni di un grande predicatore. Trascinanti, vorticosi, e irrimediabilmente morali.
NOTE: Il romanzo da cui il film è tratto è ambientato in una New York pre-11 settembre.
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