1940: Europa: reparto cancro
1940; il tumore, al centro d’Europa, cresce e mangia, in espansione inesorabile. Succhia vita dai vasi sanguigni circostanti: territori città, campi strade, fiumi uomini, madri bambini, tutto è nutrimento: tutto è utile a ingravidare Europa di malattia. Invade e conquista, il cancro: indisturbato: e incurato.
Il barbierino ebreo, immemore, torna a casa: “Jew” ora a titolo del suo salone; nelle strade ridicoli militi a passo d’oca terrorizzano le giovani, i vecchi: se in molti, attaccano anche gli uomini: uno alla volta, certo.
Il piccolo barbiere riapre bottega, cancella l’insegna spregiante, riaffila i rasoi: tutto come un tempo. Le croci accoppiate? Boh! Hynkel? E’ quel tipo che sbraita alla radio?
E’ proprio Adenoid al microfono, sgolante, livido dallo sforzo di diffondere odio nell’etere. Toh! Assomiglia al barbiere; ma gli occhi! Dolci, pietosi quelli: sbuzzati, bestiali nel grande dittatore. I brividi, dalla nuca al fondo, a sentirlo. L’altoparlante del ghetto porta la sua voce nelle case: a tavola, toglie l’appetito, fa sparecchiare in fretta, in silenzio.
Il barbierino rade e pettina, al solito: se non c’è da pettinare, lucida. A tempo di musica: andante non troppo, però! Già nelle strade troppi rischi, per i clienti.
Il male continua intanto a far marcire uomini e coscienze; si propaga nell’aria, attraverso la radio, ma anche nei cibi, nell’acqua tirata su dal pozzo: la terra ne è pregna; la malattia trasforma in sé ciò che mangia.
Negli ampi saloni di palazzo, il sublime Adenoid comanda, dirige, indica. Faro delle genti, instancabile lavoratore, sogna un mondo tutto per sé: un mondo perfetto, abitato da uomini semidivini, biondi: ariani; unico scuro il capo: a creare insondabile mistero di Fede. Il mondo, nelle sue mani, si libra nell’aere: mani finissime lo riprendono, di ballerino, di artista: sublime il padrone fa girare la sua creatura. Delicati tocchi di mano, eleganti colpi di tacco, uno, discreto, di lombi: il mondo risponde al padrone, docile e preciso, cooperatore nel dar forma a bellezza.
Ma il dolore, allo scoppio… il mondo non è pronto: grezzo, ingrato… La disperazione, comprensibile, dell’Artefice.
Basta con gli scherzi: a fuoco il ghetto, e le genti.
Dal barbiere sembrava tornata la pace: con essa, era arrivato l’amore. Il popolo ricominciava a sperare: immane crudeltà, questa, inconcepibile una maggiore: illudere. Il popolo rianimato credeva il peggio passato, sceso in strada pensava la luce frutto di un nuovo sole. Il piccolo barbiere e l’amata si facevano belli: prima uscita insieme. La benedizione di tutti quanti, e via a braccetto. Pochi passi, e già il mondo sembra non poter essere migliore. Pochi passi, quando dall’altoparlante la voce del bestiale idrofobo risuona nelle strade, negli animi. Sui volti, negli occhi, una nuvola; gracchiante, scatarrante l’odio cola giù per i muri, come sangue. Lo stomaco di contrae, la schiena si gela. Tremano le gambe. A casa, di corsa! In giro già gli immondi necrofori, in branchi, cercano prede: donne, di preferenza, o vecchi. Uomini, uno alla volta.
La speranza, quella, è scolata giù nei tombini insieme alle lacrime.
Un tumore: ormai senza cura; così sembra. Un medico, una medicina, ci vorrebbe. Un intervento. Dei raggi.
La cura sarà l’amore, nel luogo in cui la croce uncinata diventa accoppiata. In cui il baffuto che sbraita si chiama Hynkel, non Adolf ma Adenoid, causa spolmonamento. L’amore di un piccolo barbiere ebreo, senza memoria, che nell’incubo da cui non può svegliarsi non riesce a staccare gli occhi dall’orizzonte, in attesa di vedere rotolar via lo scuro dei nembi. Dove invece il barbiere si chiama Charles Chaplin sarà l’arte a pretendere di opporsi, tragicamente, alla malattia; nel 1940, quando tutti dicevano di non sapere che accadesse là in mezzo, nel nucleo della cellula degenerata: voltandosi miserevolmente dall’altra parte, europei americani e il papa, a scrivere un’ulteriore pagina di vergogna.
Nel 1940 quel piccolo signore con la bombetta si opponeva con le armi a sua disposizione: al tumore opponeva l’arte, con il suo primo film sonoro, lui che da una quindicina d’anni si opponeva anacronisticamente alla parola nel cinema.
Inascoltato.
L’orrore che seguirà rende questo film dolorosamente esemplare: l’arte, il cui compito è quello di innaffiare, rendendo meno arida, la coscienza degli uomini, non sarà servita a salvare la vita di milioni di uomini e donne che nel 1940 erano ancora capaci di speranza.
Questo film così oscenamente ostacolato, criticato, snobbato, è l’urlo di sdegno, di ribellione di un uomo nel deserto; il vento secco della miseria umana lo ha disperso: e indecentemente sbeffeggiato.
Il suo valore in quanto Arte ne risulta tuttavia affermato: per ulteriore atroce tragica testimonianza della cicatrice sempre sanguinante del cancro nazista.
Si ride, ci si commuove, ma Il grande dittatore gronda lacrime dalla prima all’ultima immagine.
Nelle sale attualmente la riedizione integrale restaurata a cura della Cineteca di Bologna, contenente le scene tagliate dall’edizione italiana del 1961 in cui appare la “signora Napaloni”, moglie del Benzino Napaloni dietro cui sta il mascelluto dittatore nostrano.
Le scene furono tagliate per rispetto, che invero appare oggi (dovrebbe apparire) un pò scandaloso, all’allora vivente signora Rachele Mussolini.
A cura di Mario Bonaldi
in sala ::