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Polvere di western

Polvere di western

Il veterano.
Il giovane.
Il senza-scrupoli.
Il selvaggio.
I personaggi, definiti con tratto secco e preciso, attraversano la polvere e il sole del brullume australiano alla ricerca del fuggitivo. Hanno mezza giornata di svantaggio nei confronti della loro preda e, mentre l’indigeno li guida con mano sicura notando ogni piccola pietra spostata della sua terra, il senza scrupoli ne approfitta per far strage gratuita di indigeni facendo lentamente prendere coscienza al giovane che, inizialmente esaltato e spaccone, comincia a chiedersi il perché di tutto questo.
Dal canto suo il veterano guarda tutti con gli occhi piccoli e stretti. Lento avanza a cavallo, silenzioso viene eliminato da una freccia sparata da chissàdave, anzi, l’indigeno lo sa, ma no lo dice a nessuna e guarda avanti col sorriso nero e furbo.
Meno uno.
Dopo l’ennesima strage l’ammutinamento del senza-scrupoli da parte del Giovane, i tribunali e le urla non servono a nulla fra i cespugli e il sole accecante e il viaggio prende pieghe diverse guidato dai tempi lenti del western, dalle orme dei piedi nudi, dal passo del cavallo su cui spesso è costretta la macchina da presa che, altre volte, la fotografia contrastata e essenziale di Jones Iain piazza su pendii lontani lanciando secchi zoom, lontani anni luce dai leccati voli d’uccello che la cinepresa faceva accarezzando gli scenari del Signore degli anelli.
Qui a mozzare il fiato ci sono solo le frecce che tolgono la vita, il sole potente e le corde che impiccano sui neri alberi secchi, intervallate dalle canzoni scritte dallo stesso De Herr che la guida canta mentalmente, parole che cercano la dignità dei indigeni fra i primi piani dei cattivi risoluti. Un gioco sulla grammatica del Western reinventato per parlare di potere e di storia Australiana, in cui le scene più violente sono coperte da una sorta di autocensura; invece che il sangue e le crudeltà fissiamo i quadri quasi naif di Peter Coad mentre l’audio prosegue imperturbabile con le sue urla e i suoi dolori.

Il film, costato meno di un milione di dollari è stato realizzato da un’esigua troupe di quindici persone che per tutta la durata del film ha sopportato il lavoro in condizioni estreme in territori inospitali rendendo vissuta e selvatica ogni sequenza del film. E’ una terra vecchia, odora di vecchio, l’australia è la terra in cui vivo dall’età di otto anni aggiunge a voce bassa Peter Coad, cappello bianco da Cow – Boy e occhietti vispi mentre a fianco lui, l’espressivo attore aborigeno David Gulpil è vestito in un elegantissimo frac nero con ancora l’etichetta del negoziante sotto le scarpe, fuori luogo far tutti quei divetti, a suo agio solo sullo schermo, col suo sorriso selvatico.
Selvatico come il film.

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