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Note nell’Apocalisse

Note nell'Apocalisse

Una finestra sul ghetto
di Andrea Montagnoli

Prima di entrare in una sala in cui vedrò un film che racconta della Shoah, confesso di averne poca voglia.
Ogni volta che vedo un qualsiasi documento che parla di pagine così dolorose della storia, so che ne sarò così emotivamente coinvolto da stare male per giorni. Del resto non riesco a farne a meno: un film sulla Shoah ti costringe a ricordare, a non dimenticare e la memoria, in tempi di revisionismo globale, è una necessità inderogabile. “Il pianista”, però, non è esattamente un film sulla Shoah, ma è il racconto personale e sentito di Polanski che non realizza un film autobiografico (del resto il regista, al tempo della narrazione, era ancora un bambino) ma ricrea le sue drammatiche memorie di gioventù. La prima parte del film racconta come vivevano gli ebrei a Varsavia e di come ancora non potevano immaginare quello che sarebbe successo ma che tutti noi sappiamo. Nasce da questo espediente narrativo un forte coinvolgimento personale che non può lasciare indifferente nessuno spettatore. I nostri occhi e quelli di Polanski sono gli occhi di Wladyslaw Szpilman, il pianista. Tutta la vicenda è raccontata dal suo punto di vista, lui osserva e inerte è trascinato da eventi che cambieranno la storia del mondo. Szpilman (interpretato alla perfezione da Adrien Brody) è un artista, non è interessato se non marginalmente dagli avvenimenti della politica e non ne ha bisogno perché vive nella sua arte e questo gli basta. Il suo è uno sguardo che si pone fuori dalla realtà e fuori dagli accadimenti, lui guarda il mondo alla finestra. Improvvisamente si ritrova a dover lottare per vivere e a dover sopportare gli orrori di una strage priva di senso ma nonostante ciò lui sarà sempre “uno che guarda”. Attraverso Szpilman, Polanski mantiene uno sguardo freddo, sceglie di porre le distanze e dei confini da non oltrepassare per poter raccontare una storia così dolorosa che in altri modi sarebbe inenarrabile. Di Szpilman e della sua famiglia non sappiamo quasi nulla, solo che sono polacchi, amanti della musica ed ebrei, ma il loro essere ebrei non li caratterizza fortemente, è solo un aspetto, quasi irrilevante, della loro vita balzato al centro della loro esistenza solo a seguito dell’invasione nazista. Per questo non fuggono quando ne hanno avuto l’occasione, per questo ubbidiscono alle regole assurde imposte dai nazisti. Non possono immaginare quello che accadrà perché sono solo delle persone come tante altre.
Le scene all’interno del ghetto sono crude e terribili, spesso incontenibili allo sguardo e quello che colpisce, oltre alla violenza dei tedeschi, è l’impotenza e la rassegnazione degli ebrei, che continuavano a sperare in un provvidenziale mutamento degli avvenimenti. Szpilman cerca di ribellarsi e aiuta a organizzare una rivolta importante, ma circoscritta e scoppiata troppo tardi. Non può che fuggire e impotente guardare dalla finestra, nel silenzio. Il suo è uno sguardo veramente imparziale perché “ha attraversato l’orrore” dice Polanski,” riuscendo tenacemente a vivere, ha assistito ad atrocità spaventose ma non si è annientato, per salvarsi non ha commesso nè viltà nè eroismi. E’ stato fortunato, e come me da bambino, ha incontrato polacchi buoni e pessimi, ebrei eroici e mascalzoni, tedeschi criminali ma anche capaci di pietà”. Tutto ciò che il protagonista vede è stato spogliato di ogni logica e di ogni significato, si tratta soltanto di immagini disumane e sarà solo l’arte a salvare Szpilman dalla follia della realtà. Suonando il pianoforte ritorna ad essere quello che è in tutta la sua dignità, poco importa che lo strumento sia solo immaginato o che non si possa dar voce ai tasti perché nessuno, pena la morte, deve sentirne il suono. Solo il ricordo della musica di Chopin, che con la sua arte romantica auspicava la liberazione della Polonia, restituisce a Szpielman la sua libertà e la sua voglia di vivere. Davanti ad un pianoforte tutti potranno vedere la sua sua dignità di uomo, come la vedrà anche il capitano nazista Wilm Hosenfeld. I due, pur così diversi, tra le atrocità di una guerra prossima alla fine, si riconosceranno e si rispecchieranno nella loro umanità. Niente più differenze, niente più odio, solo due uomini.

Contro l’orrore del nazismo la musica
di Francesco Servadio

Seconda guerra mondiale. Wladislaw Szpilman è un pianista affermato, grande interprete di Chopin, che ora incide musica per la radio. Nel bel mezzo di una registrazione, però, il musicista è costretto ad interrompere bruscamente la sua esecuzione: sono le prime avvisaglie della furia nazista, di cui tutta la sua famiglia rimarrà vittima.Confinato nel ghetto di Varsavia e costretto a sopportare terribili umiliazioni, riuscirà a scampare alla deportazione nascondendosi in alloggi di fortuna. Infine, proprio quando tutto sembra perduto, sopravviverà grazie all’aiuto di un ufficiale nazista, che lo risparmia perché rimane incantato dalle sue eccezionali doti di pianista.
Lo sfondo è quello di un mondo sconvolto dalla dittatura hitleriana, ma il vero protagonista non è il nazismo e neppure Szpilman, bensì la musica. Le note del pianoforte rappresentano l’unico antidoto alla miseria, alla sofferenza e alla morte: Chopin è più forte del duro cuore della Gestapo, insofferente e spietato nei confronti della specie umana.
Diretto dal regista di Rosemary’s baby – Nastro rosso a New York, Polanski è abile nel mostrare il Male senza eccedere nelle scene di violenza. Il nazismo resta però un mostro criminoso da condannare senza mezzi termini: non vi può essere redenzione per i carnefici (neppure il nazi “buono” si salverà); mentre le vittime sono trattate con un profondo senso di rispetto e di pietà. La sceneggiatura è sapiente nell’evitare il manicheismo e l’americano Brody è una rivelazione (da tenere presente agli Oscar); straordinaria, poi, la scenografia di Allan Starski, che rende al meglio nella descrizione della rovina della capitale. Diverse scene notevoli: oltre a quella iniziale, che è il punto di forza del trailer, si distinguono anche quei pochi secondi di desolazione in cui la cinepresa si sofferma sugli oggetti lasciati dai deportati prima della partenza; la rivolta/sconfitta ebraica osservata di nascosto dal pianista dalla finestra; lo Szpilman fluttuante nella città fantasma.
Non è certo la prima volta che un regista impegnato analizza il nazismo; ma se in passato molti cineasti lo hanno descritto attraverso gli occhi delle vittime o dalla parte degli eroi che si sono opposti al regime, questa, forse, è la prima volta che il filo conduttore della storia è un pianoforte.
Costi esorbitanti (38 milioni di euro) e buon successo di critica. Meritata Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes.

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