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Nido di vipere

Nido di vipere

“Ho sempre desiderato fare un film tutto al femminile senza maschi. Avrei voluto fare un remake di “Donne” di Cukor, ma i diritti sono da anni in mano a Julia Roberts e Meg Ryan. Quindi ho ripiegato su questa pièce francese adattandola alle mie perversità.”

È lo stesso regista, François Ozon (acclamato autore già dalla seconda opera di due anni fa, “Sotto la sabbia”) a presentare con queste parole il suo terzo film, tratto da un testo teatrale (e si vede nel rigido rispetto delle tre unità aristoteliche); per cui ha riunito tre generazioni di attrici francesi tra le più famose (Deneuve, Ardant, Huppert, Ledoyen); immergendo il tutto negli anni ’50, con i colori (e i costumi, e l’uso della musica) tipici del Technicolor dei film di Sirk e Minnelli, (“il grande cinema perturbante degli immigrati europei a Hollywood”, sempre parole del regista).

La vicenda, la più classica situazione da giallo alla Christie (con le protagoniste isolate e prigioniere e l’assassino tra loro) interessa a Ozon fino a un certo punto: più che il giallo voleva divertire (e divertirsi) riunendo un cast di star tutto femminile e omaggiare un periodo e tutto un cinema (ad ogni personaggio è abbinata una star dell’epoca e quindi ecco la Deneuve come Lana Turner o la Ardant, tra Ava Gardner e Rita Hayworth). In questo senso l’operazione riesce, diverte grazie anche all’attento e perfetto uso delle luci, dei costumi, della scenografia o della colonna sonora (anche chi ama il musical classico è accontentato, con ogni attrice che interpreta e balla una canzone tratta dal repertorio pop francese); che insieme ricostruiscono alla perfezione l’atmosfera da classico Usa.
Solo un’operazione cinefila attenta, ironica e rigorosa? Il dubbio rimane, certo la differenza tra i precedenti film e quest’ultimo è netta e viene spontaneo chiedersi il perché del tutto.
Se, infatti, il revival fifties funziona, la sensazione è che il film non vada molto oltre e non appare quell’inno alla grande forza delle donne (ancora Ozon) che, forse, voleva essere.
Troppo ironico, troppo cinefilo.

Non basta citare e omaggiare Sirk per essere Fassbinder (in cui sì l’omaggio era solo la parte più superficiale di un’operazione profonda e complessa e da cui Ozon ha tratto il film precedente). E anche Truffaut lo lascerei stare (altro autore che amava citare, e omaggiare): non basta riunire due sue attrici come Fanny Ardant e Catherine Deneuve e prendere una battuta da un suo film per essere avvicinato al giovane turco degli anni ’60; ma, si sa, i francesi appena possono…
Divertissement. Intelligente e fatto bene, ma niente di più.
Solo vedere otto attrici di questo calibro punzecchiarsi e cinguettare insieme è un piacere. L’Huppert, zitellona inacidita, è come al solito eccezionale, ma anche la Béart, maliziosa camerierina, e Virginie Ledoyen, giovane e apparentemente innocente, non sono affatto male.
Ma forse Ozon lo sa: si è divertito e vuole (solo) divertire: “Il mio è un film che non parla solo all’appassionato di cinema, sono molti gli angoli di lettura: c’è il poliziesco alla Agatha Christie, il romanzo familiare, il film di star. Ogni spettatore troverà quel che cerca”.
Appunto.

Tiriamo le fila: la sceneggiatura funziona perfettamente, le attrici sono straordinarie, la regia inappuntabile come tutti gli aspetti formali (costumi, luci, musiche); ma la domanda è un’altra: si sentiva bisogno dell’ennesimo omaggio tecnicamente perfetto al mondo anni ’50, l’ennesimo film perfettamente “carino”? Ai presenti l’ardua (mica tanto…) sentenza.

Il bacio saffico Ardant-Deneuve, di cui tanto si parla, non è niente di sconvolgente.

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