Oscillazioni: fra la forma e la sostanza
Spinti da venti diversi
di Mario Bonaldi
Il Bunraku è una forma di teatro tragico giapponese: le marionette mosse sulla scena raccontano storie d’amori infelici, parlano di amanti perduti o attesi invano.
Costretti dalle mani che li guidano, i fantocci si muovono senza posa, quasi in balia della propria passione: anime di lussuriosi dentro il turbine infernale.
Come bambole inanimate, anche gli uomini sono alla mercé di mani altrui: quelle del destino; come foglie su cui soffiano due venti diversi gli amanti sono nelle mani della casualità.
Tutto concorre a cercare di dividere gli amanti: in primis, invariabilmente, c’è la morte. Beffa disumana, violenza inconcepibile, la morte fa frusciare la propria veste e miete vittime, alla cieca. Femmina di oscena noncuranza, si rigira sul suo letto di mortali ma non dà sicurezza d’essersi addormentata: non dorme infatti, solo sta immobile, e non a lungo, come un’ insonne che spera di riposarsi almeno un minuto.
Takeshi Kitano dice di Dolls che è senza dubbio il suo film più violento: cosa c’è di più terribile della morte? La morte che arriva inaspettata, la morte che disfa progetti e speranze, la morte che divide? Dolls è per molti aspetti il film più sconvolgente del regista nipponico. Mai il pendolo tra amore e morte aveva oscillato così ampiamente.
L’amore, la morte. Il primo indifeso ma caparbio, tanto ostinato quanto fragile. La seconda prepotente e invidiosa, perciò crudele.
Tre storie si alternano in Dolls, storie di amori “bunraku”, amori che sembrano condannati all’infelicità.
Di queste tre, solo una lascia intravedere una luce di speranza. Solo una non è falciata dalla morte.
L’amore incondizionato, la devozione assoluta, l’ostinazione a restare uniti permettono una via di salvezza: la coppia di amanti incatenati ne è l’emblema.
Gli altri amori che non hanno saputo trovare la forza di continuare a procedere sotto i colpi del destino non avranno futuro.
Ma Dolls sconvolge anche sotto un altro aspetto: quello dell’impatto visivo. Quest’opera è stata definita “una trappola estetizzante”, a causa della bellezza formale di alcune sequenze e immagini. Queste ultime poi danno l’impressione di trasformarsi in dipinti: sembra di assistere a una serie di quadri animati, più che a un film. Non vediamo dove sia la “trappola” di cui sopra: la bellezza estetica di Dolls non è certo fine a se stessa, essa anzi è solo valore aggiunto alla sua bellezza “interna”, alla sua complessità: sempre che tra forma e contenuto sia lecito distinguere.
E’ questo un film di una bellezza sconvolgente, in ogni caso.
Il pendolo oscilla, come sempre in Kitano, tra amore e morte: questa volta si ferma a metà, improvvisamente. Chi ha saputo non separarsi è stato salvato dal legame stesso.
Almeno per il momento: sono vere e proprie bambole quelle appese per la corda rossa sull’orlo del precipizio.
Sullo sfondo, un vero e proprio dipinto.
Chi manovra noi fantocci può sempre rivoltarsi e far spezzare il ramo.
La vita può essere più pericolosa di una pistola **
di Lucio Basadonne
Era dai tempi di KIDS RETURN che Kitano compariva soltanto dietro alla macchina da presa. Avrà rinunciato per la mancanza di un ruolo o perché non voleva trasformare sé stesso in un fantoccio?
Le bambole del teatro Bunraku che ci vengono mostrate all’inizio del film sono dirette da abili manovratori con movimenti stranianti fra urla indecifrabili e abiti chiassosi. Dopo la prima sequenza Kitano abbandona le bambole vere e proprie ci mette davanti i suoi attori senza cambiare l’impostazione e tutto questo parla una lingua strana, anni luce distante dalla ridondante atmosfera veneziana.
Dolls viaggia lontano fra la fotografia dipinta di Katsumi Yanagishima e la recitazione straniante degli attori, viaggia lontano distaccato dalla nostra cultura e dai tempi serrati del montaggio contemporaneo. Qui ad ogni stacco c’è un elissi narrativa al contrario, si torna indietro di qualche secondo e il film si spande come una malattia lentissima e colorata, cerca di catturarti e di portati in questo strano universo che parla col linguaggio dei kimoni e dei fiori di pesca.
Non si dipana la storia, si sposta fra i colori delle stagioni, è una maestosa e indolente valanga che Kitano controlla con rigore, rinunciando alla furia abituale per parlarci di morte e amore con la lingua della sua terra; è un po’ come se il cinquantacinquenne regista giapponese, ormai indipendente e con un accanito seguito di fans e adepti, abbia deciso di fare tutto quello che voleva creando un film difficile e personale, terribile ed estremo.
Chi lo ama lo segua, lo amerà sempre di più.
Non è vero che lo spettatore poco attento sarà divorato dai colpi di sonno: è un film che può rapirti sulle sue insolite lunghezze d’onda o lasciarti del tutto indifferente, estasiato dai colori e dai suoni, ma col cuore lontano. Questo mi ha lasciato Dolls, le due stelline quassopra sono un giudizio troppo individuale. Entrate in sala se volete, sarà un film così personale e asettico, così teatrale e rallentato che lascerà il segno. A voi il compito di sintonizzarvi sulle delicate lunghezze d’onda del nuovo Kitano.
A cura di Mario Bonaldi
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