Il peso del fumo
Il peso del fumo… è quello che avvolge i dialoghi , le immagini di questo bellissimo film. Fumano tutti: e in ogni scena c’è sempre qualcuno che si accende un sigaro o una sigaretta. In controtendenza rispetto alla crociata salutista clintoniana, l’atto del fumare è celebrato come quel qualcosa in più che rende un racconto o un discorso più completi, quasi come se tra una parola e l’altra si senta il bisogno, tirando una boccata, di fermarsi un momento a riordinare le idee, a ragionare. E’ un film di racconti: racconti autobiografici, storici, o pure invenzioni letterarie, come quello, splendido, che racconta lo scrittore Paul Benjamin (William Hurt) al ragazzo che ha preso sotto la propria protezione: racconto di uno sciatore che durante una discesa si perde e muore, e il suo corpo rimane perfettamente congelato nel ghiaccio finché, venticinque anni più tardi, suo figlio, anch’esso sciatore, non trova il corpo del padre, paradossalmente più giovane di lui. Chi racconta di più nel film è lo scrittore, ma la storia migliore non è sua, è del suo amico Augie (Harvey Keitel):“Il racconto di natale di Augie Wren” opera dello sceneggiatore Paul Auster. Questo racconto, così delicato e gentile, straordinario eppure così normale, chiude in bellezza il film: e noi spettatori abbiamo la fortuna di poterlo prima ascoltare, raccontato da Augie, e poi di vederlo, in bianco e nero senza dialoghi, accompagnato dalla musica di Tom Waits, nella sequenza finale.
Il dolore, nel film, è sempre presente: eppure esso appare meno terribile, di fronte allo spettacolo, nel film, di persone che si parlano e si comprendono, che cercano e trovano conforto nei rapporti umani, nell’amicizia, nella vicinanza l’uno con l’altro. Quando Augie e Paul parlano, con il loro silenzi, le loro pause per aspirare il fumo, i loro sguardi, si ha l’impressione di assistere al meraviglioso spettacolo di due anime che, con le loro differenze, i loro dolori, entrano in sintonia… a quel punto nemmeno le parole sono più necessarie, basta guardarsi negli occhi e sorridere. E’ questo un film di parole, di dialoghi: non già tra persone che si parlano addosso, come nei film di Tarantino, ma dialoghi veri, ponderati, intelligenti, come se ogni parola abbia la medesima importanza e il medesimo compito, quello di farci tendere le orecchie per non perdere una sola sillaba. E’ questo il vantaggio di avere come sceneggiatore uno scrittore vero: e infatti il regista si affida docilmente alla sceneggiatura, senza però risparmiarsi (e risparmiarci) delle vere delizie: come il dissolversi l’una nell’altra delle fotografie che Augie scatta ogni mattina all’angolo dove si trova il suo negozio: dopo che egli invita Paul a guardarle più lentamente, ecco che anche lo scorrere delle foto si fa più lento, anche il loro sparire per lasciare spazio a quella successiva è più riflessivo, più pensoso: anche a noi è data la possibilità di osservare meglio quelle immagini tutte uguali e insieme tutte diverse, uniche. Anche questa delle migliaia di fotografie dello stesso soggetto è una trovata poetica davvero affascinate, che trasforma il bottegaio Augie in uno schivo e defilato artista, piccolo filosofo del vivere lento, senza corse, senza affanni.
Il terzo attore del film è Forest Whitaker, nei panni di Cyrus, un meccanico con uncino al posto del braccio: anche il suo descrivere il modo in cui ha perso l’arto diventa racconto, letteratura: Dio gli strappo la mano in seguito all’incidente che causò la morte della moglie e al suo posto gli mise un uncino affinché egli, guardandolo, si ricordi di quanto è stato cattivo ed egoista e cerchi di essere un uomo migliore. Questa pellicola, Orso d’oro al festival di Berlino, con la sua compostezza, il suo equilibrio, la sua serenità, rappresenta veramente un punto di riferimento per chiunque vada cercando, nella modestia intellettuale del cinema d’oggi, un modello recente di film di parole, in cui il ruolo delle immagini ha certamente il suo peso e la sua importanza, ma è certo subordinato alla bravura del narratore, dello scrittore, che ogni sceneggiatore dovrebbe sempre ricordare di essere.
Il film ha avuto un seguito, intitolato “Blue in the face”: regista e sceneggiatore sono gli stessi, e c’è ancora Harvey Keitel dietro il banco della sua tabaccheria.
A cura di Mario Bonaldi
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