hideout

cultura dell'immagine e della parola

Ménage à trois

Ménage à trois

Nel 1962 François Truffaut era un regista che si aspettava al varco.
Dopo anni di violenta battaglia critica e teorica sulle pagine di “Cahiers du Cinema” e di “Arts”, nel 1959 passa alla regia realizzando “I quattrocento colpi” che vince il Festival di Cannes e diventa un caso in tutto il mondo.

Il 1960 è la volta di “Tirate sul pianista” che è un completo insuccesso, gli avversari di quella corrente, già chiamata nouvelle vague, alzano la testa e la voce vedendo proprio nel secondo film la prova del bluff di questo giovane autore.
Quando Truffaut annuncia il suo prossimo film, tratto dall’opera prima di un autore non proprio suo coetaneo (quando si pubblica il libro, Roché ha settantacinque anni) è l’ennesima conferma. Il giovane critico che anni prima attaccava violentemente il cinema francese per la sua letterarietà, si è allineato sulle stesse posizioni del cinema di papà che tanto deprecava. Un bluff, appunto.
Poi esce il film e la leggerezza di uno stile aereo, raffinato e delicato con cui racconta una storia così immorale, la delicatezza con cui descrive tre personaggi indimenticabili e la loro scandalosa liaison, colpiscono e convincono di nuovo.

Quello che caratterizza un autore è il fatto di fare (più o meno) lo stesso film per tutta la vita. Le stesse ossessioni, le stesse passioni, temi simili in uno stile unico. Truffaut può piacere o meno, ma è indiscutibilmente un autore. Più che mai in questo film c’è tutto il suo autore: l’amore per il cinema e la letteratura, per la giovinezza e la donna, per la vita raccontato in un Truffaut-touch alla massima potenza.
Sorretto da una fotografia in stato di grazia (Raoul Coutard è il fotografo nouvelle vague, collaboratore di tutti, in particolare Godard) dalla musica di Delerue (altro habitué del movimento) segue con affetto i tre personaggi con momenti indimenticabili (il favoloso inizio, con la voce narrante fuori campo, che ha fatto scuola, la canzone “Le Tourbillon” cantata da Jeanne Moreau e scritta da Boris Bassiak che interpreta un’ennesima vittima del fascino di Catherine).

Aspettato al varco, il giovane François è forse ancora più eversivo, dimostrando e inaugurando un modo nuovo di adattare un romanzo al cinema, teso a coglierne lo spirito, l’essenza, contro gli adattamenti tradizionali che aborriva, rimanendo fedele al suo mondo e al suo modo (stessa leggerezza e autenticità, sincerità e amore con cui fa recitare gli attori, organizza le riprese, fotografa la realtà dei suoi primi due film).

Se rimane inalterato il fascino visivo, quasi sensuale, il film oggi appare ancora più complesso e profondo: non solo un leggero inno all’amore e alla vita, ma un film in cui si mescola la commedia e la tragedia, un film sull’amore ma anche sulla morte (il finale, inaspettato, è di una crudezza quasi insostenibile nella descrizione della dissolvenza dei corpi).
Una macchina da presa incredibilmente vitale e irrequieta (quasi un quarto protagonista); crea un film che non racconta solo un anticonformista modo di affrontare e concepire la vita sentimentale (che tanto aveva fatto gridare allo scandalo all’epoca); ma che è anche un’analisi del rapporto uomo-donna, della femminilità in generale, dell’amicizia, dell’amore neanche tanto divertente o divertita (l’unica soluzione è la morte…).
Un film non sulla trasgressione, ma su un tentativo di trasgressione che non riesce in cui sono i tre protagonisti , nei loro complessi rapporti (è Catherine all’inizio del film a sintetizzare bene la storia: “Tu mi hai detto: t’amo. Io ti ho detto: aspetta. Stavo per dirti : prendimi. Tu mi hai detto: vattene.”) e nelle loro individualità ad interessare il regista e ad affascinare lo spettatore (grazie anche alla perfezione degli interpreti, in cui, ma forse non sono obiettivo, spicca la prova di Jeanne Moreau, che esprime la femminilità come raramente al cinema).

Ancora quarant’anni dopo un film che emoziona e stupisce, forse l’occhio innocente e giovane, fresco e leggero non ha età, non invecchia e ci può dire sempre qualcosa.

André Bazin ha detto:”Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda con i nostri desideri”.
Si può aggiungere, non sempre.
Quando questo avviene (e nel film di Truffaut avviene) non si invecchia.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»