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cultura dell'immagine e della parola

Universi comunicanti

Universi comunicanti

Amanti solitari
di Mario Bonaldi

Seduto al cinema, pochi minuti prima della proiezione di “Parla con lei”, ho scoperto di essere un po’ prevenuto nei confronti di questo film. Le poche recensioni che avevo letto lo presentavano come un ennesimo capolavoro. I miei amici “fan” del regista spagnolo già si fregavano le mani, pregustando un “Tutto su mia madre” parte seconda.
Io invece ero diffidente. Pensavo che tutta questa atmosfera di anticipata adorazione mi avrebbe lasciato deluso. Il film precedente di Almodòvar, che pure avevo amato, non mi aveva completamente convinto. Troppo, pensavo. Mi sembrava troppo carico. Mi pareva sovrabbondante. Finita la visione, i miei amici pre-entusiasti sono rimasti un po’ delusi. Si aspettavano di più.
A me, invece, “Parla con lei” è sembrato semplicemente stupendo.

In una clinica si incrociano le vite di quattro persone, due uomini e due donne. Le due donne giacciono in coma. I due uomini che le vegliano stringono amicizia.
Uno è Marco, giornalista argentino: la sua donna è Lydia (Rosario Flores, stella del pop spagnolo); una famosa torera, in ospedale proprio per un incidente avvenuto durante una corrida.
L’altro è Benigno, un infermiere. Da quattro anni cura Alicia, una studentessa di danza di cui era innamorato già prima che lei cadesse in coma, e che ha casualmente ritrovato nel suo ospedale. (Nota: L’insegnante di danza di Alicia è interpretata da Geraldine Chaplin, così assomigliante al padre da far venire le lacrime agli occhi.)
Benigno è convinto che l’amore tra un uomo e una donna possa esistere anche in quelle condizioni: per questo consiglia a Marco: “Parla con lei”. L’infermiere, anche senza avere esperienza in fatto di donne, sa che l’ostacolo più grande per vivere con un’altra persona è quello del non sapere comunicare. “Amarsi è nulla” dice d’altronde Céline nel Voyage “E’ restare insieme ad essere difficile”: Marco e Lydia avrebbero dovuto parlare molto prima.
La passione è sofferenza: la solitudine è spesso provocata dalle ferite che la passione lascia.
Almodòvar insiste però sul fatto che amarsi è necessario, è l’unico modo per non essere soli, per vincere i colpi bassi della vita. La speranza, secondo il regista, non deve mai venire meno; come non deve mai mancare l’ironia, il buonumore. Questo film così drammatico è, ancor più del lavoro precedente, pieno di ottimo umorismo. A far ridere e piangere insieme, Almodòvar (ormai si firma così, non deve più nemmeno usare il nome) è davvero un maestro.
Commuovere, soprattutto. Il personaggio di Marco si commuove spesso: le ferite di un amor perduto sanguinano ancora, ed egli piange, ogni volta che si emoziona, perché non può condividere l’emozione con quella donna. Il volto dell’attore (Dario Grandinetti) che interpreta Marco sa comporre tanta espressione e naturalezza da giustificare ogni lacrima versata. E i momenti suggestivi non mancano: il film si apre e si chiude con due spettacoli di Pina Bausch; a metà c’è Caetano Veloso in persona che canta una delicatissima versione di “Cuccuruccuccù Paloma” in spagnolo: e fa venire i brividi. Ma il vero gioiello incastonato in questa pellicola è una sequenza di sette minuti, in bianco e nero, che rappresenta un film degli anni Venti intitolato “L’amante menguante”; si tratta in realtà di un capriccio cinefilo di Almodòvar, un vero e proprio film nel film in cui un uomo minuscolo esplora e si gode il corpo, per lui gigantesco, dell’amata dormiente fino a decidere di sparire dentro di lei, pur di potere possederla una volta. Non è casuale che sia proprio Benigno a raccontare questo film. Questa volta Almodòvar guarda le cose dalla parte degli uomini; che soffrono, si perdono, e rinascono, proprio grazie all’amore, all’amicizia, alla voglia di vincere la solitudine.

L’Amore fa soffrire tutti in questa pellicola; ma lo sguardo che due personaggi si scambiano, nell’ultima immagine, prima che si abbassi il “sipario” dello spettacolo di questo grande regista, è il segnale che riscatta tanto dolore e fa venire voglia, come direbbe il giovane Holden, di essere amici di Almodòvar, e di poterlo chiamare ogni volta che ci pare per sapere come va a finire con quei due.

Il fiore del suo segreto
di Francesca Arceri

Si chiude il sipario: “Tutto su mia madre” finisce a teatro, nel luogo dove tutto era iniziato. Si apre il sipario: inizia “Parla con lei” e siamo ancora a teatro, e ancora quello che poi sarà il protagonista si commuove guardando lo spettacolo. In scena c’è un balletto di Pina Bausch che pare metafora perfetta di quelli che saranno i due temi portanti del film: l’incomunicabilità e la condizione della non vita, il coma. Due donne avanzano come in trance, come rapite, per una stanza ingombra di sedie e finiscono sbattendo contro un muro imbottito che assorbe qualunque rumore. le due donne non si vedono e proseguono senza posa fino a cadere a terra come corpi vuoti. La coltre rossa di velluto separa la realtà dalla rappresentazione, che però è pur sempre vita, anche se sublimata, idealizzata.
Dove prima avevamo delle attrici (Tutto su mia madre) ora abbiamo una torera e una ballerina: il mondo dell’arte e dello spettacolo sembra essere prerogativa unicamente femminile, la donna come portatrice di una sensibilità e di una irrazionalità artistiche per eccellenza; la donna come simbolo stesso della vita.
“Parla con lei”, come tutti i film di Almodòvar, è un concentrato di realtà, una metafora della sua complessità e della sua bellezza polimorfica. Ma mentre i film precedenti avevano la prorompenza di un fiore tropicale: carnoso, coloratissimo, dalle forme barocche e dal profumo inebriante, questo suo ultimo film appare più tenue, più contenuto. I colori diventano più delicati e la luce si fa più morbida: appare immediatamente che quello che verrà descritto sarà un universo opposto a quello prediletto da Almodòvar. “La legge del desiderio”, “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, “Legami!”, “Il fiore del mio segreto” e “Tutto su mia madre”: protagonista assoluta di questi film era la dimensione femminile, la loro forza le loro debolezze i loro segreti la loro dolcezza; in “Hable con ella” per la prima volta abbiamo come protagonisti gli uomini, il loro modo di sentire, di amare. Ma soprattutto al centro dell’attenzione c’è l’amicizia virile, come in “Tutto su mia madre” c’era quella femminile.
Alla fine di “Tutto su mia madre” torniamo a teatro e troviamo una delle protagoniste, l’attrice, a recitare un dramma di una madre per la morte del figlio. Un dramma che però segna una ripresa, un superamento del dolore, una maturazione. Williams e Lorca: principio e fine di una storia: il teatro che si intreccia con la vita. Anche in “Parla con lei” il cerchio si chiude e torniamo a teatro dove Marco incontra Alicia e nasce un nuovo amore: nella casualità si incontrano le due estremità di una vicenda che erano rimaste abbandonate, sfilacciate. Ancora una volta la vita supera la morte, ancora una volta l’amore è la migliore espressione di vittoria della vita.

Comunicare: due solitudini a confronto

Benigno: “Parla con lei, raccontaglielo.”
Marco: “Sì, mi piacerebbe. Però, lei non può sentirmi!”
Benigno: “Il cervello delle donne è un mistero…”

Marco e Benigno sono due estremi entrambi confinati nella solitudine. Due vite distanti e apparentemente inconciliabili, eppure vicine nella loro condizione di estremità. Due solitudini legate a due corpi vuoti. Questo li unisce. Contemplano le loro donne senza capirle, la differenza fra loro è che percorrono due strade diverse: Marco si lascerà sopraffare dal silenzio mentre Benigno lo riempe con le parole, Marco rinuncerà a trovare un ponte di comunicazione perchè per amare ha bisogno di un riscontro, di una risposta, perdendo così Lydia; Benigno invece amerà incondizionatamente, senza aspettarsi nulla in cambio e compirà il miracolo.

Estetica del dettaglio

La grandezza di un regista come Almodòvar sta nella sua capacità di creare un mondo con una sua coerenza, dando prova di una padronanza, e soprattutto di una consapevolezza davvero geniali. Tutto è calibrato, costruito eppure non si avverte nessuna artificiosità: al contrario; la sua potenza consiste proprio nella naturalezza.
I suoi film sono caratterizzati da una cura attentissima alla composizione, ai colori alle geometrie, alle inquadrature ricercate. Anche in “Parla con lei” c’è questo studio, ma in questo caso abbiamo una vera e propria sinfonia del dettaglio. Indugia, si sofferma, esplora: la pellicola è costellata di immagini grandiose, perfette, di corpi e di oggetti. Sembra voler segnare un nuovo respiro, un nuovo modo di vedere le cose, la vita stessa: è il ritmo del silenzio, della morte, dell’attesa, della speranza, della solitudine: lungo diteso sospeso.

Il rosso e il blu

Almodòvar ha un’autentica passione per il contrasto cromatico. In “Legami!” e in “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” c’è un’autentica ossessione per il blu e il rosso: in ogni inquadratura è sempre presente un tocco di entrambi i colori. Anche in “Tutto su mia madre” c’è questa medesima ossessione, ma solo per il rosso. Anche la locandina di “Parla con lei” gioca sue questi due colori contrastanti, eppure in questo film è meno evidente questo fedele rituale di rappresentazione. Forse proprio perchè questi colori, questo contrasto sono più adatti per significare le donne? Lydia è rossa, il colore della passione mentre Alicia è blu, quello della malinconia, della dolcezza. Due aspetti di una stessa natura.

Osservazione:
Guardando il piccolo muto “Amante menguante” inserito all’interno del film è impossibile non ricordare quella sequenza di “Legami!” in cui un giocattolo, un omino sommozzatore meccanico, nuota nella vasca della protagonista e si infila in mezzo alle sue gambe. Un’autocitazione? Probabilmente è un’immagine a lui cara, proprio perchè così potente nell’esprimere tutta la sua ammirazione per l’universo femminile.

• Vai all’approfondimento suPedro Almodòvar

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