Un tranquillo weekend di bravura
Inghilterra, 1932. La tenuta di campagna di sir William McCordle ospita per un week-end di caccia una ventina di nomi eccellenti dell’aristocrazia inglese. Sotto quei nobili piedi, downstairs, altrettante persone della servitù, che per semplicità tra loro si chiamano con il nome dei loro padroni. Non solo per motivi di praticità: tra loro si instaura subito una scala gerarchica che rispecchia quella di chi cammina upstairs, al piano di sopra. In una casa, due mondi: una sorta di divisione verticale alla Metropolis, con i lavoratori di sotto a sgobbare per gli oziosi che stanno sopra, la cui unica attività, a parte qualche pennuto impallinato, consiste nella frecciata e nel pettegolezzo.
Si potrebbe parlare di opera di ricostruzione sociale e ambientale, se non ci scappasse il delitto, proprio come in un romanzo di Agata Christie. Perché Altman, oltre ad avere ricreato un mondo perduto, con un attenzione per il dettaglio, di arredamento e di costumi, quasi maniacale, ha complicato le cose facendo assassinare il padrone di casa. Si ha quasi l’impressione che Gosford Park sarebbe stato molto bello anche senza questo elemento: che offre però nuovi spunti all’indagine del regista sui due mondi che si trovano nella casa, palpitante quello inferiore, molto meno vitale quello superiore. E queste dimensioni sono tuttavia collegate, come si intuisce da subito: i nobili, come a cercare un’ alternativa al loro compassato mondo, vanno ad “ingaglioffirsi” giù tra il popolo, mentre i servi si interessano a quanto succede di sopra al punto da spiare i nobili nei saloni: nella scena in cui Ivor Novello (Jeffrey Northam); famoso attore, canta al pianoforte, la servitù sta dietro la porta ad ascoltare e a sognare, come sentendosi parte di quel mondo dorato che per tutta la vita ha solo potuto sfiorare.
La voce dell’attore non produce tuttavia lo stesso incanto sulla snobissima Maggie Smith, che interpreta Constance, contessa di Trentham: per lei Novello non è che un ballerino, un rozzo americano che canta canzonette buone per la plebaglia. Il bel mondo in cui il regista si è immerso è la quintessenza dell’understatement britannico: e la brava Maggie ne è la campionessa. La sua dose di disprezzo colpisce anche una coppia di borghesi squattrinati, la cui unica colpa è quella di volersi mescolare al bel mondo. In pochi fanno bella figura in questo film: di questi, nessuno appartiene alla nobiltà.
Il personaggio migliore è proprio quello interpretato da Northam: curioso che Altman presenti proprio un americano quale unica anima semplice tra tanti lupi. Al piano di sopra prevale solo l’ipocrisia, l’altezzoso disdegno, la leggerezza.
Per ogni persona della casa, sia essa nobile o serva, la morte del proprietario non è che una scocciatura: a causa delle indagini nessuno può lasciare il luogo del delitto. Del resto chi è l’assassino? In molti avevano un motivo per odiare sir William. E ci sono addirittura due armi del delitto.
Gosford Park può essere goduto in due modi: ci si può disinteressare completamente della vicenda ed entrare nel maniero, origliando dalle porte e cogliendo occhiate sfuggenti, poi salire le scale e dilettarsi con arguzie e battute salaci. Oppure lo si può gustare come un giallo classico del genere “whodunit”: la soluzione dell’enigma non è per nulla scontata. Se poi si riesce a combinare le due visioni insieme, allora resta solo da fare tanto di cappello ad Altman, che pare dirigere un film con la stessa facilità con cui noi spettatori respiriamo.
Note: Gosford Park aveva sette nominations all’Oscar, tra cui miglior film e miglior regia. In entrambi i casi ha vinto però “Richard Cunningham” (Ron Howard – “A beautiful mind”). Il film di Altman si è aggiudicato la statuetta per la migliore sceneggiatura originale (Julian Fellowes)
Il film è ispirato alla pellicola di Jean Renoir “La regola del gioco”, 1939.
Ivor Novello è il nome del protagonista di “The Lodger” (“L’inquilino”) film di Alfred Hitchcock del 1926.
• Vai alla recensione di The company
A cura di Mario Bonaldi
in sala ::