Brucio d’intento
La tigre. Gli uccelli. Gli alberi che perdono colore. E poi il vento. Presto, mi sta chiamando. Devo andare. Devo trovare Line. Devo scrivere. Devo capire Silvio Soldini.
Silvio Soldini e i suoi incubi.
Gli incubi di Dalibor.
Silvio Soldini non è un regista. Silvio Soldini non fa film. Li dipinge. La fotografia degli interni nelle sue abili mani si trasforma in Van Gogh. Il paesaggio è uno scatto rapido ed eterno tra le sfumature del cielo. I dialoghi diventano brevi interruzioni tra i continui monologhi intimistici fuoricampo. La scrittura di Soldini è la sintesi ideale di un secolo di sperimentazione artistica. C’è il Nouveau Roman di Claude Simon, così impersonale, senza nessuna importanza da dare ai personaggi, con gli oggetti, con gli agenti atmosferici che non vivono in funzione di un’azione, ma in funzione di se stessi. Brillano di luce propria. Dove le città non hanno un nome, dove le vite sono tanto spezzate da non poter mai essere troppo speziate, dove la storia non ha un inizio, non segue un percorso e ride pensando a un suo possibile lieto fine. Dove ciò che conta non è tanto la psicologia vincente del singolo su una massa di personaggi comunque secondari assecondati all’eroe di turno, ma è lo studio dei rapporti che possono scaturire tra le psicologie di un insieme di individui ai confini della società. La sfida nei confronti degli spettatori è forte, ai limiti della pretesa, specie quando ”Brucio nel vento” scade in un intellettualismo da film d’avanguardia, con inquadrature talmente ripetitive da farti bramare, con certe frasi talmente prevedibili, reazioni talmente scontate che ti chiedi se forse questi artisti d’haute licterature non stiano giocando sadicamente col tuo cervello. Ma è una tortura che lo spettatore deve sopportare, anzi di cui deve godere, non per stupido masochismo patriottico, ma perché questo è uno stillicidio che aiuta a crescere e a diventare lettori coscienti della scrittura filmica. Il primo passo verso la morte del pubblico passivo.
Questo film lo andranno a vedere in dieci persone e lo apprezzeranno in due. E’ un film minimalista degli anni’80 con personaggi scappati da una retrospettiva su Truffaut. E’ il miglior Marco Bellocchio de” I pugni in tasca” per la violenza cervellotica di certe scene. Sono le elucubrazioni mentali di Moretti proiettate in un mondo ovattato e forse troppo lento per essere reale… Non so se questo è il futuro delle nostre pellicole. Forse, è solo una delle tante strade per arrivare a un nuovo cinema italiano. Sicuramente è un esperimento. Un esperimento corretto, dal gusto forse un po’ retrò, di chi sa che il cinema di una volta non ci sarà più. Un tentativo da glorificare perchè cerca di intaccare le leggi di un mercato e di un pubblico che si abbandona a se stesso, drogato con gioia da informazioni inutili e immagini che insultano l’intellligenza media di un essere umano. “Brucio nel vento” è il coraggio di sputare sopra i massmediologi, sopra i soldi, sopra chi continua la sua ”corsa idiota” (è la forza di chi ne ha abbastanza dei soliti meccanismi alla Vanzina, dei produttori di capolavori del nostro cinema così rigorosi e rispettosi nell’onorare le festività più commerciali – leggi San Valentino – ). E’ forse questo il coraggio che ci vuole per fare un film. Niente Dolby Surround. Niente effetti speciali o sorrisi insaguinati aggrappatti a un elicottero in fiamme alla Stallone.
“Brucio nel vento” è senz’altro un film che mi sento di consigliare, anche solo per imparare ad apprezzare, ad accorgersi che esistono piccoli gesti che cambiano la visione di un’esistenza, soffi dolci di una frase senza nessuna apparente importanza, commoventi stereotipi di operai-poeti maledetti con problemi esistenziali, depressi amanuensi di intimità rara.
La madeleine di Proust diventa lo sguardo con cui Soldini filtra le immagini. La macchina da presa, la sua macchina del tempo. I sottotitoli sempre in evidenza e gli slavi che parlano italiano, le difficoltà oggettive che il film propone, ostacoli da superare per elevare il pensiero.
Le pause e i silenzi, i dialoghi portanti, sintesi delle psicologie fondamentali che animano il film.
Le condizioni sociali dello Straniero da Camus, i vestiti dei suoi interpreti.
Pura astrazione della mente per creare nuova pellicola da plasmare. La strada è ancora lunga, Soldini brucia più d’intento che nel vento. Si perde dietro al suo passato, ai suoi ricordi e si compiace troppo del suo essere artista radical chic, arenandosi nel politically correct, spaventandosi di fronte a possibili cadute di linguaggio che forse qualche motivata imprecazione in più non avrebbe rovinato.
Tutto resta nei limiti.
Tutto va fuori dai soliti canoni delle sceneggiature didattiche.
E’ quando ti trovi in certe situazioni come questa che capisci. Capisci l’errore e incominci a esaminare il mondo stando a testa in giù, guardando sotto le gonne. Dei preti.
Tra, insomma, il senso di vuoto straziante che ti lascia un’americanata campione d’incassi e la banalità quasi estrema delle macchiette nauseabonde di una commedia all’italiana, becera, con attori incapaci, sceneggiature inesistenti e qualche battuta volgare per ravvivare la tristezza costante, io preferisco stare male. Preferisco uscire dalla sala con questa strana , indefinibile pace interiore cui non sono abituato, con una calma devastante per le emozioni quasi soffocanti che ti provoca, controcorrente a una vita decapitata dagli orari e dai ritmi biologici di un macchina, una storia di sentimento così tenera e gelida, così tanto profonda da farti riflettere e da farti gridare al miracolo, così aliena per la sua normalità. Perché forse, sì è vero, la storia è troppo antiquata, inquadrata al rallentatore, fotografata da un pennello epilettico, scomparsa nel reale, sopravvissuta nell’immaginario poetico.
Ma arrivato a un certo punto del film non mi sono più ricordato quanta importanza potesse avere tutto questo. Non avevo più bisogno di nulla. Di nessuno. Era troppo tardi. Ormai, bruciavo nel vento.
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