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cultura dell'immagine e della parola

Figli mancati, figli perduti

Figli mancati, figli perduti

Guardarsi allo specchio
di Giulia Rossi

Argentina 1973: attraverso il flash back la cinepresa spia un evento, scorre veloce, incalzante, al ritmo del battito impazzito del cuore di una donna partoriente, in una stanza dove la luce, anch’essa carica di violente rifrazioni, illumina il dolore di una nascita che mai potrà appartenere a quella madre e, al contempo, scurisce i contorni di due uomini presenti, dei militari in borghese, il cui compito è quello di strappare, conquistare il bottino di guerra: il nascituro.
Questo climax ascendente di viscerale lacerazione umana culmina con una frenesia emozionale che sommuove, già dall’inizio, l’animo di chi, in qualità di spettatore, inizia ad avvertire il sentore di una profonda ingiustizia, per placarsi poi nell’immensità di un oceano, che, in ripresa aerea,d a una parte tenta di riequilibrare le palpitazioni cardiache iniziali, dall’altra cela dei “sottintesi” che forse alludono alla drammatica fine di quella madre, come quella di molti desaparecidos, lanciata dagli “aerei della morte” in mezzo al mare.
Milano 2001: è qui che inizia il presente. E’ qui che avviene la presentazione di una famiglia italoargentina molto borghese, alquanto noiosa, dove un padre violento e una madre iperprotettiva, soffocano la vita di un figlio che, tra voli paracadutistici (simbolicamente significativi) e un mal celato spleen esistenziale, non sembra voler crescere. Il suo nome è Javier (Carlos Echevarria) e l’incontro cruciale è quello con Rosa (Julia Sarano); ragazza argentina che lo raggiunge in Italia dopo anni di ricerche, per svelargli la menzogna che ha, da sempre, velato e strutturato la sua vita.
Rosa è sua sorella, conosce le loro comuni origini, le bugie, le violenze subite dai loro veri genitori, l’ostetrica che li ha fatti nascere. Rosa è nella luce accecante e dolorosa della consapevolezza e di questa vuole rendere partecipe un fratello vissuto, cresciuto sotto il velo dell’apparenza, della non–identità, del silenzio e dell’incompletezza.
Quando la ricerca dei fratelli si sposta a Barcelona, per interrogare l’oracolare responso di verità dell’ostetrica, Javier, fino ad allora attaccato per paura all’identità accettata sin da bambino, sembra allentare le sue cieche certezze ed aprirsi all’ignota possibilità di un dolore che non riesce a mettere bene a fuoco, ma che inizia a farsi strada dentro, in quelle profondità dell’anima che non aveva mai interrogato. Un viaggio, quello che compie con Rosa, doppiamente simbolico: distacco dalla famiglia come violenta reazione individuale di un figlio ingannato da sempre ed emersione del tema universalmente umano dei ragazzi apropiados (appropriati); vissuti nella falsità, in un nucleo familiare fondato su un crimine, che non può che trasmettere inconsciamente bugie e violenze represse.
Durante il film, lo spettatore riesce, grazie alla lenta spontaneità delle immagini e dei dialoghi, a intrufolarsi in quell’idea di difficile riconoscimento del ”sé” attraverso “l’altro”, ma anche in quella straniante confusione di pelle, occhi, mani, piedi che, con il confronto dei corpi dei due fratelli, stimola la ricerca di nuove vie di espressione e di comunicazione, come mezzi efficaci, pur non infallibili, per ritrovare in modo animalesco, istintivo le nostre autentiche radici.
In una società che con le sue sovrastrutture, le sue infinite menzogne, ha offuscato, tolto il respiro alla vera intuizione e libertà umana, Bechis sembra evocare la nostra prima espressività, quella degli sguardi, dei gesti, degli umori del corpo. E’ per questo motivo che i dialoghi non sono controllate orazioni politiche, né dispersive e retoriche richieste di giustizia. Questa in sé forse non esiste, i fatti stessi lo dichiarano. La società è fondata sul silenzio, che vela la sua storia, quella collettiva. Rosa e Javier sono efficaci mezzi per dimostrare come dal particolare, soggettivo si schiuda, attraverso un processo di autoconsapevolezza, la coscienza umana.
Il regista però, si spinge oltre, a dimostrare che non basta raggiungere la verità per colmare ciò su cui la nostra vita si è strutturata o per riuscire ad accettare istantaneamente la reale identità che potremmo scoprire, ma si può anche, proprio perché solo uomini, non abbracciare l’idea di radicale cambiamento legato ad una nuova scoperta e decidere di sopravvivere affrontando con nuova consapevolezza quello che fino ad ora stimavamo parte naturale della nostra vita.
Questa è la scelta che compie Javier, quando, anziché seguire Rosa nell’incessante ricerca di verità definitive, ritorna nella casa dei suoi apropiadores.
Emblematica come scelta registica il fatto che Carlos Echevarria, che in “Garage Olympo” interpretava Felix, tremendo carnefice torturatore di desaparecidos, personifichi ora in “Hijos” la vittima, non rappresentando solo Javier ma la sua intera generazione.
Questo è il fulcro della dimensione filmica di Bechis: come già in “Garage Olympo” l’argomento fondante è l’umanità, con le sue vittime. Non è lo psicologismo ad interessarlo, cioè l’approccio esplicativo di ogni reazione umana, ma il mostrare personaggi che si muovono su uno sfondo, in un contesto reale.
E’ difficile trarre conclusioni su un film che il regista stesso ha voluto, nel finale, rendere in parte enigmatico, sicuramente di pluralistica e vivace interpretazione. In fondo, non è la conclusione della storia narrata a ricondurci a un giudizio completo sugli avvenimenti ricordati di emblematico e devastante spessore, bensì il forte e pungolante stimolo ad aprire le porte della nostra percezione ad una più universale e democratica consapevolezza che coinvolga a trecentosessanta gradi non due fratelli, non una generazione in particolare, ma l’antropos, l’essere umano.

Identità perdute
di Alessio D’Agostino

Dal forte impatto emotivo e visivo di “Garage Olimpo”, Bechis si trasferisce alla tragicità di una vita falsa, mai vissuta, e di una rubata, vera, ma mai assaporata. Un ideale seguito che punta sull’intimo travaglio interiore dei personaggi, alla ricerca di se stessi, combattuti tra passato e futuro, tra affetti sottratti ed acquisiti indebitamente.
E’ la storia di Javier, che vive in una ricca famiglia della Brianza la sua vita tranquilla, con i dei “genitori” dolci ed apprensivi. Sarà Rosa, che crede Javier il suo fratello gemello, rapito alla nascita per essere consegnato alla famiglia italoargentina dei Ramos, a trovarlo dopo una vita di ricerche, guidata dal racconto dell’ostetrica che aveva perpetrato la loro separazione alla nascita.
La storia si snoda attraverso il dramma interiore di Javier, combattuto tra l’oltraggio della menzogna, costretto a vivere senza conoscere se stesso e il desiderio di capire. Rosa scoprirà di non essere la sorella di Javier, ma lo metterà di fronte alla triste realtà di aver vissuto accanto al carnefice che ha sterminato la sua vera famiglia e molte altre vite in nome del regime senza scrupoli, di aver amato e condiviso tutta la sua vita, con colui che gli ha rubato una vita ormai perduta.
Bechis cerca di raccontare questa rivoluzione interiore, attraverso sguardi, dolci carezze, forti espressioni. L’idea del viaggio attraverso il dramma interiore e del mutamento repentino di sentimenti veri, ma rubati, è l’unica percorribile per esprimere a pieno il suo orrore, ma la regia si sofferma troppo a lungo sulla poca espressività di Echevarria, poco a suo agio nei panni di Javier; ne risulta una narrazione lenta, che fa fatica a decollare verso il turbinio di sentimenti contrastanti che dovrebbero prendere luogo nella testa dello spettatore; un sogno incompleto, una sensazione di odio e disagio che sfiora semplicemente lo spettatore nella scena conclusiva, metaforica, del salto nel vuoto, come la vita vissuta, rappresentante la scelta dell’andare avanti o del fuggire dall’orrore scoperto. Una caduta lenta, soffocante, ritardata, che dovrebbe dare l’idea del trapasso dalla vecchia vita vissuta nella menzogna, a quella nuova “verità”, ma che solo superficialmente cattura le emozioni più profonde dello spettatore.
Bechis è un buon regista, i suoi primi piani e la camera che rotea e si sofferma sulle espressioni dei personaggi da più punti di vista fanno cogliere il suo tentativo di immedesimare lo spettatore nel vortice degli eventi. Purtroppo un po’ per il tema di difficile approccio, un po’ per una scelta sbagliata del cast, Bechis non riesce a pieno nel suo intento riuscendo spesso a congelare i sentimenti e ad esprimere superficialmente il dramma. Non bastano gli sforzi surreali di fornire metafore per un dramma così intenso e personale, che difficilmente può essere espresso a pieno attraverso le immagini, non basta il tocco finale documentaristico per dare spessore ad una sensazione forte e profonda che appare solo sfiorata ed incompleta.

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