La forma del destino
Il perno su cui ruota e si fonda tutta la vicenda è Ed Crane (Billy Bob Thornton); un uomo qualunque, barbiere in una cittadina anonima. La sua vita si è talmente appiattita da farlo quasi scomparire: sposato con una donna della quale non è mai stato innamorato e con un impiego da subalterno senza alcuna prospettiva. In lui ogni emozione è come spenta, il suo viso è una maschera, sempre uguale a se stesso, incapace di traspirare alcun sentimento. Ed Crane resta sempre imperturbabile, pare non esistere, si confonde nell’ambiente, si perde fra i soprammobili della sua casa. Sembrerebbe impossibile immaginare in lui ancora un afflato di resistenza, una timida ribellione a questo stato delle cose. Eppure, imprevedibilmente, da dietro quella maschera arrivano degli impulsi e il tentativo disperato di fuggire da questa immobilità soffocante. Questo viso impassibile, quest’uomo dimesso e remissivo sarà capace di ricattare l’amante di sua moglie, di portarlo alla rovina per poter avere quello che crede essere l’unico lasciapassare per la felicità: il denaro. Non spinto dall’avidità ma dal bisogno di evadere dal quella realtà paralizzante. Senza volerlo, però, Ed compierà un omicidio che innescherà una spirale di crimini e morte che coinvolgerà tutti i personaggi, fino a richiudersi, circonferenza quasi perfetta, al punto di partenza.
Il fato, l’apparente assurdità del caso e l’individualismo macinano i personaggi lasciando impietrito lo spettatore. Il film sembra quasi dirci che chi compie un “delitto”, o meglio un gesto sovvertitore, sarà sopraffatto perché viola un ordine e che inevitabilmente, per un strada o per l’altra, verrà punito. Pare dire: nessuno è al di sopra della “legge”, come scrive Dostoevskij. Però a differenza di Raskol’nikov, in Ed Crane manca la consapevolezza dei propri gesti, manca quell’etica che rendeva simbolico il delitto nel romanzo russo. E forse ancora di più manca una ragione ultima agli avvenimenti; qui il fatalismo si presenta senza una logica apparente: le cose sembrano accadere per caso e per caso sembra compiersi una logica assurda e non predeterminata. Eppure alla fine il cerchio si chiude e la punizione arriva ugualmente, anche se per un crimine che Ed non ha commesso. L’impossibilità di modificare il proprio destino è una conseguenza di tutto questo; incombe un fatalismo opprimente che paralizza lasciando come unica scelta la rassegnazione. Ed è distante da quello che gli accade, non appartiene alla sua stessa vita, non partecipa al senso profondo delle proprie azioni: la sua è “un’esistenza liberata dal dolore perché liberata dalla speranza”. Tutte queste caratteristiche e molto altro si ritrovano in Meursault, protagonista dello “Straniero” di Albert Camus. Un altro indizio del sincretismo tipico del cinema dei due registi americani.
Si resta stupiti dalla struttura di questa vicenda, un meccanismo di precisione ad incastro, che avanza con un ritmo perfetto e calibrato, senza fretta, raccontando risvolti e sviluppi imprevisti e alternando scene tragiche a momenti comici, grotteschi e amari. Come sempre Frances McDormand dimostra di essere un’attrice superiore, in perfetta armonia con lo stile dei due fratelli, anzi parte integrante del marchio Cohen. La sorpresa più gradita arriva invece da Billy Bob Thornton, sempre rimasto in seconda linea e finalmente emerso alle luci della ribalta. Colpisce di lui la faccia disegnata, lineare, il viso impassibile, eppure incredibilmente espressivo.
Questo film ci pone davanti ad un bivio netto e definitivo. Da una parte quello che vediamo è un bellissimo film noir, in perfetto stile anni cinquanta con quella punta di humor nero tipico dei Cohen. Gli elementi del genere ci sono tutti, a partire dal bianco e nero impeccabile che in alcuni punti varrebbe tutto il film, fino ad arrivare ai topos del noir: la vita infelice e mediocre, gli ambienti (e i rapporti umani) degradati, e soprattutto quel fatalismo che permea tutta la pellicola. In questo senso i fratelli Cohen danno una buona prova della loro capacità mimetica e di una grande abilità di sintesi. D’altro canto, pur essendo uno fra i migliori film di questi ultimi anni, lascia l’impressione di avere un limite intrinseco dato proprio da quel marchio così evidente, una maniera abusata che potrebbe ridurre l’ampio volo di quest’opera alla misura di un cammeo, pregevolissimo ma fine a se stesso. Impossibile quindi avere una via di mezzo nel giudicare quest’ultimo lavoro di Joel ed Ethan: o lo si ama profondamente o se ne rimane delusi. Noi non abbiamo dubbi: è amore a prima vista.
Note: Premio della giuria ex-aequo insieme a “Mullholland drive” di David Lynch al Festival di Cannes 2001.
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A cura di Francesca Arceri
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