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cultura dell'immagine e della parola

Rose e solitudine

Rose e solitudine

Nonostante il premio del pubblico alla cinquantaquattresima edizione del Festival di Cannes, si potrebbe parlare di film mancato, perché i presupposti sono buoni, ma il risultato non convince e resta medio. La scelta di temi poco visitati come la vecchiaia, l’handicap mentale e la provincia può essere un buon punto di partenza, ma lo stile adottato dal trentunenne Lieven Debrauwer, alle prese col suo primo lungometraggio, non convince e lascia insoddisfatti. Le immagini sono estremamente curate, traboccanti di colori saturi, ma rimangono asettiche, incapaci di staccarsi “dalle piatte convenzioni di uno sceneggiato per la televisione”. Anche la scelta azzeccata di utilizzare il “Valzer dei fiori” di Ciaikovskij viene svuotata dall’abuso che ne viene fatto. Invece resta un piccolo gioiello la scenografia degli appartamenti che di volta in volta amplifica i caratteri dei personaggi che vi abitano. Trasuda la provincia dalle carte da parati tristi e marroni dalle geometrie retrò, dalle porcellane leziose anni cinquanta, dalle trapunte ornate di rose di stoffa, dai tessuti in tutte le nuances del rosa: ogni oggetto partecipa a costruire un’atmosfera fuori dal tempo.
La storia parla di sorelle diverse e lontane, confinate ognuna nel proprio mondo, realtà incomunicabili. Cècile vive in città e ama vestirsi elegantemente. Convive con un uomo snob, egoista e insopportabile al quale si sottomette perché senza non potrebbe stare. Paulette sta in paese e ha una merceria, è zitella e ama cantare l’operetta in una compagnia di filodrammatici della provincia. Pauline, che vive nel suo mondo colorato e fiorito, non può che rimanere affascinata dalla sorella Paulette, dalle sue stoffe, dai suoi colori e dall’operetta, anche se questo non basta ad aprire un varco all’affetto e alla comprensione. Troppo prese ognuna dai propri egoismi e incapaci di sacrificarsi per amore della sorella, Cècile e Paulette la tratteranno come uno scomodo pacco postale. Alla fine sarà quest’ultima a prendere Pauline con sé, dopo aver provato nostalgia per quello che prima considerava solo un peso.
Indubbiamente ha importanza il tema dell’handicap, ma in questo film resta poco sviscerato, solo sfiorato e non perché rimanga sullo sfondo, ma per una certa superficialità di contenuti che non arriva a toccare il cuore del problema. Quello che viene rappresentato è il mondo sognante di Pauline, semplice e irreale come quello di un bambino. Quasi più autentico di quello “normale”. Il finale, poi, si risolve nel modo più prevedibile e retorico. Forse si riscatta solo pensando che la scelta di Paulette sia dettata più dal bisogno egoistico di avere un amore incondizionato, vero, per vincere la solitudine in cui viene a trovarsi, che per un reale gesto d’amore e di solidarietà. Ma ci troveremmo a discutere sull’origine stessa dell’altruismo e via dicendo, cose che il film non arriva a toccare.

Note: Presentato dal Belgio per la corsa agli Oscar di quest’anno come Miglior Film Straniero.

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