Documentario senza regole
September Tapes non è un documentario e nemmeno una fiction. Una docufiction allora? Nemmeno. Sarebbe presuntuoso provare a dargli una definizione precisa. Il film, nelle intenzioni, vuole essere un backstage sulla guerra in Afghanistan e sulla caccia a Bin Laden, una risposta al deficit d’informazione post 11 settembre, una testimonianza che può fare luce sulle zone d’ombra mediatiche e i silenzi che avvolgono la lotta sul campo all’esercito del terrore. Eppure in questo docu-drama sui generis, realtà e finzione non hanno e non vogliono essere separati nettamente: s’intersecano, confondendo i normali riferimenti dello spettatore, per la valutazione della realtà. Non ci sono criteri definiti e definibili e molti hanno parlato dell’opera di Christian Johnston, targandolo come “mockumentary”, ovvero una fiction presentata come documentario. Eppure questa pellicola contiene diversi elementi che scavalcano gli steccati della catalogazione di genere.
Emerge la componente partecipativa-interattiva del documentario, dove, attraverso l’intrusione e l’interrelazione del filmaker sulla scena, risalta una testimonianza di una parte del mondo storico contemporaneo. Ritroviamo inoltre lo strumento dell’intervista, – vedi il ruolo d’interprete-intervistatore di Wali Zarif (Wali Razaqi) – come mezzo capace di mettere in luce aspetti e punti di vista differenti di una storia controversa e delicata come il post 11 settembre.
Ma buona parte delle incursioni, dei viaggi pericolosi e non autorizzati, delle interviste, sono spiegati esclusivamente dalla retrostoria, da un copione già scritto negli snodi essenziali, eppure fondamentalmente aperto agli sviluppi provocati dagli incontri sul campo con personaggi reali: Talebani, guerriglieri dell’alleanza del Nord ed eminenti personaggi dell’amministrazione locale. La retrostoria è sostanzialmente questa: tutto si svolge in un Afghanistan lacerato dalla guerra, una terra praticamente di nessuno, dove il reporter Don Larson (George Calil), l’interprete afghano Wali Zarif (Wali Razaqi), e un cameraman (il regista Christian Johnston), hanno viaggiato per oltre sei mesi al seguito di un mercenario, sulle tracce impalpabili, a volte nitidissime di Osama. Un soggetto di fiction che s’incastra e si muove nella macchina più complessa, pericolosa e imprevedibile della cronaca di uno stato in una situazione tutt’altro che pacifica. Che si riscrive e si rigenera in base all’esigenza finale delle audaci società di produzione (Complex e Presistent Entertainment): mettersi sulle orme di Bin Laden in compagnia di cacciatori di taglie e fare luce sulle attività di ricerca al “signore del male” avviate sul campo dai servizi segreti americani e dai Mujaheddin. Fare questo con una troupe di attori e filmaker arditi, pronti a ficcarsi nei guai e a rischiare seriamente la vita, (tutte le pallottole e le esplosioni sono vere) ma soprattutto infarciti di dollari da presentare come mazzette ai personaggi del documentario, per recitare la parte (manipolando le informazioni in funzione di un copione già scritto) o ottenere informazioni vere e proprie sui movimenti di Bin Laden.
Il film, pur ponendosi negli scopi come uno strumento per testimoniare e documentare una situazione storica e politica oscura, riesce solo parzialmente nell’opera (e ci saremmo meravigliati del contrario). Buona parte del materiale girato è stato sequestrato dalla CIA e dal Ministero della Difesa Statunitense, ma questo non toglie che le intenzioni di “lasciare parlare delle immagini” montate, mutilate e deformate, tanto da mostrarci Bin Laden come una perfetta copia della strega di Blair (si vedano le ultime sequenze), si pongono da una parte come materiale informativo incompatibile con qualsiasi criterio deontologico, e dall’altra come uno spettacolo di finzione talmente intrecciato con la realtà da risultare inquietante per qualsiasi spettatore.
Link correlati:
• Approfondimento Generi e Modi del documentario
A cura di Fabio Falzone
documentari ::