Radici
Alla fine degli anni ’30 Alain Lomax decide di andare alla scoperta della musica nordamericana, così in numerosi viaggi (i primi dei quali nel delta del Mississippi) raccoglie ore di registrazioni che diverranno fondamentali per la storia del blues futuro, scoprendo autori del calibro di Muddy Waters, Son House, Robert Johnson, Lead Belly.
A distanza di sessant’anni non è più una scoperta, ma una riscoperta quella in cui ci guida Martin Scorseses nella prima parte del suo documentario: cosa rimane della cultura musicale che Lomax per primo ha documentato addentrandosi nel profondo sud degli Stati Uniti.
Un vero e proprio viaggio che ha come guida un giovane bluesman di oggi, Corey Harris.
Attraverso interviste e jam session improvvisate con anziani musicisti in vita e filmati d’epoca per gli scomparsi il grande regista ci presenta la grande stagione del blues di decenni fa del delta (una vera e propria culla del genere) cercandone le radici e lo spirito, immersi in una situazione storico-sociale-culturale ormai lontana anni luce dallo stato attuale del paese.
Ma a differenza del pioniere degli anni della depressione, Scorsese vuole andare più fondo: non solo registrare una musica nuova, ma cercarne le origini.
Ed ecco la seconda parte del viaggio, in Africa, Mali.
Niente di nuovo sul fronte occidentale: il blues non è un nuovo genere ma un sopravvivere di una cultura strappata dalla propria terra natia, costretta per continuare a esistere ad adattarsi a una nuova realtà geografica.
Non un commosso omaggio a una musica che si ama profondamente, come nell’episodio di Wenders. Almeno non solo.
Più vicino alla definizione di documentario, Scorsese affianca all’omaggio (il film si apre con il regista che dichiara di non concepire una vita senza musica) la voglia di andare più a fondo, di scoprire le origini, arrivando a toccare una delle pagine più violente della storia dell’occidente, un momento che rimane fondamentale per la nascita del proprio paese.
Un nodo, quella delle origini degli Stati Uniti, che sembra interessare molto, ultimamente, ma forse da sempre, il grande regista.
Comunque grande musica: nelle jam session di Harris con i grandi vecchi in loco, nelle immagini d’archivio, in studio.
Una citazione tra le tante possibili: la strepitosa versione di “Sweet home Alabama” di Robert Johnson (mitico e forse il più grande pioniere di cui ci rimangono solo due foto e una manciata di canzoni) nell’interpretazione di Harris e di Keb’ Mo’.
Una pellicola da affiancare nella filmografia scorsesiana a “ New York, New York” e “The Last Waltz” per una trilogia sulla musica americana.
E a quel “Italianamerican” in cui raccontava, rifletteva su un’immigrazione molto successiva, assolutamente meno violenta, ma comunque importante per i futuri Stati Uniti.
Il grande autore non si smentisce e un documentario sul blues diventa una profonda riflessione sull’origine degli Stati Uniti: non nata solo nelle strade di New York, ma anche molto più lontano. Sempre con il sangue.
Un nuovo capitolo nell’opera di uno dei più grandi autori cinematografici del nostro tempo che continua a interrogare, riscoprire, raccontare la memoria del proprio paese. Non solo con grandi produzioni di finzione ma anche con piccoli documentari. Sempre fondamentali contributi per la Storia e la riflessione.
Finora il progetto ci piace. Molto. Aspettiamo con impazienza “Piano Blues” del grande Clint Eastwood (annunciato per la primavera 2004).
Curiosità: Gli altri tre episodi del progetto presentati alla mostra di Venezia (e per ora non destinati a uscire nelle nostre sale ) sono: Godfathers and Sons” di Marc Levin ( protagonisti del rap parlano dell’influenza del blues su di loro ); Red, White & Blues” di Mike Figgis (il blues Usa in Inghilterra. Clapton, Jeff Beck, Van Morrison etc.); “The Road to Memphis” (tutto dedicato a uno dei protagonisti assoluti del genere: B.B. King) di Richard Pearce.
Al documentario è abbinato “The Last Customer” (di Nanni Moretti, Italia 2003, 23’); breve ma intenso e poetico diario dell’ultimo giorno di vita di una farmacia newyorkese, che chiude dopo cinquant’anni di attività.
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