Porto: esperienze
di brand
Recentemente, un noto istituto di ricerca ha cominciato a parlare di “consumAutori”, neologismo che inquadra il consumatore di oggi nelle sue due dimensioni chiave: quella dell’autore e quella dell’attore del consumo. Il consumAutore rifiuta la banalità del consumo in favore di una esperienza di consumo in cui possa prendere parte attiva (attore) e giocare un ruolo di primo piano nella scelta degli elementi significanti (autore). Ecco allora che si comincia a parlare di marketing esperienziale e di brand experience; non più la proposta meramente commerciale, ma un incontro con la marca, la condivisione di un’emozione, l’empatia.
Vacanzieri alcolisti impenitenti, i miei amici ed io abbiamo sperimentato la “Calem brand experience”.Porto, Vila Nova de Gaia: da questa sponda del Douro, la città è ancora popolata di numerose cantine. Esternamente, edifici dai bei volti, internamente, locali che, via via, perdono la luce per conservare quella freschezza dall’odore umido e imbevuto di legno aromatico: le botti di Porto. Non possiamo perdurare nell’ignoranza e non conoscere la differenze tra il Ruby ed il Tawny, non dopo avere trascorso le nostre ferie in Portogallo. Una letta veloce alla guida (che non prendeva posizione) ed entriamo nelle cantine Calem. Un atrio rumoroso, ampio, ma senza alcun luogo dove sedersi.
Qualche pannello informativo e una parete a vetro che lascia supporre la cantina retrostante. Atteso il nostro turno, entriamo preceduti da una guida. Neanche il tempo di prendere coscienza del luogo e siamo costretti ad infilarci in una struttura lignea a forma di botte dove viene proiettato un video. Un documentario invedibile. Un esempio per tutti: si parla del raccolto delle uve? Si vede una mano che recide il grappolo e il voice over commenta “…la terra del porto [musica], una terra aspra…[musica]”.
La sensazione è solamente quella di perdere del tempo utile alla visita. Segue un affrettato tour tra le botti e un cenno veloce sulle modalità di conservazione ed invecchiamento (10 minuti al massimo). Viene presentata la produzione Calem; per ogni bottiglia una manciata di osservazioni sulle caratteristiche principali. Il tempo stringe, i gruppi dietro di noi incalzano, le voci e i brusii si accavallano. Siamo condotti momento sul quale tutti noi contavamo: la degustazione. Non posso negarlo, due bicchieri di ottimo porto.
Peccato la sala con almeno una decina di lunghe tavolate. Peccato i due americani che tracannano i propri bicchieri come fossero shot di tequila. Esco e torno alla luce del sole. Sono frastornata, ma non è il vino. Entrata con l’idea di burberi “vignaiuoli” e vecchi barili sulle banchine del fiume, ho vissuto un’esperienza inautentica ed attraversato un luogo “sporcato” da troppi agenti esterni (il brusio, il mio gruppo – troppo folto -, l’occhiare eccessivo del lato commerciale).
La cantina è storica, risale al 1859, ma l’atmosfera, se non perduta, è irrimediabilmente guastata. L’esperienza di brand, “il mondo Calem”, è stata progettata solo superficialmente: sensi ed immaginario si sono scontrati con una realtà purtroppo turistica. Il sito web lo conferma: sale per piccoli congressi, eventi business e salette per cene riservate. Un tour virtuale con cui Calem si rivende ogni singolo centimetro delle cantine. Una delusione. Nel mio ricordo vive solo il rubino e il morbido sapore del bicchiere di Ruby.
A cura di Stefania Novarini
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