Venezia, i film:
Norwegian Wood
“I once had a girl, or should I say, she once had me…” Inizia così una romantica canzone dei Beatles, Norwegian Wood, la stessa che da il titolo al romanzo più celebre dello scrittore giapponese Haruki Murakami (Tokio Blues, Norwegian Wood). Come ci si aspetta dalla migliore letteratura nipponica contemporanea il romanzo, parzialmente autobiografico, raccoglie ricordi, sensazioni, percorsi a ritroso di un’esistenza, trascorsa in costante compagnia di latenti quanto devastanti sentimenti nostalgici, amori lontani, speranze soffuse.
Il compito, veramente arduo, di trasporre sul grande schermo un racconto “emozionale” è andato al regista franco-vietnamita Tran Anh Hung, già Leone D’Oro a Venezia per Cyclo (1995), noto anche per Il profumo della papaya verde del 1993. Chi impara a conoscere attraverso la lettura quella vita e quel Giappone narrati da Murakami, si rende conto già dalle prime righe della quasi totale impossibilità di poter ritrovare la stessa magia al cinema, sebbene l’ipotesi di un adattamento cinematografico possa sembrare seducente. Il risultato ottenuto da Anh Hung è, purtroppo, proprio quello che ci si aspettava: una trama che asseconda senza mai stravolgere quella originale, ma un bagaglio di considerazioni, sentimenti sopiti, sensi di colpa serpeggianti, per i quali non è stato trovato nessun corrispettivo d’immagini. Ridotta quasi al minimo la strategia della voce narrante, che sarebbe stata allo stesso modo pericolosa, gli accadimenti si svolgono con la lentezza e l’apprezzabile delicatezza tipica di questo tipo di cinema, ma non riesce a rendere quelle sfumature del carattere di Watanabe, eternamente tormentato e rassicurato dalla sua stessa solitudine e capace di profonde riflessioni, qui invece ridotto ad un personaggio di poco peso, in balìa dei suoi amori reali o possibili, a seconda del caso. Le domeniche in cui avrebbe voluto compagnia, (“Domeniche silenziose, tranquille, tristi. Di domenica non c’è neanche il mio programma preferito a tenermi compagnia”), il rapporto con il mondo circostante, il suo vagabondare per il Giappone, viene nel film sostituito da un concatenarsi di eventi che, sul grande schermo, appaiono pure piuttosto prevedibili.
Impossibile definire quindi riuscita l’operazione. Con un tipo di narrativa come quella giapponese, neanche immediatamente afferrabile per tutti, visti i continui rimandi a topoi e tematiche caratteristiche della loro cultura (uno di questi è proprio il rapporto col sesso), non si può pensare semplicemente di spostare luoghi, personaggi ed eventi dalla pagina alla pellicola. Peccato per il cast, bellissimi e giustissimi gli attori, tra cui Rinko Kikuchi, già vista in Babel di Inarritu nel 2006.
A cura di Daniela Scotto
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