Aspetta e spera
Venezia – 8 settembre
Beh, insomma, forse il mio compagno di stanza francese era ironico. Nel senso, è una settimana che mi parla di Francesca Comencini e poi, stamattina, è rimasto nel suo letto a dormire. Tra l’altro la giornata ha alternato ironia e tristezza in modo del tutto casuale, inaspettato. Dal simpatico guardiano che oggi, dopo sette giorni di Mostra, inaspettatamente si è messo a fare il guardiano severo con chi ha un portatile nello zaino, fino alla serie di domande, davvero intelligenti, dei tanti giornalisti, davvero intelligenti, che hanno approfittato della conferenza stampa di The Man Who Stare at Goats, di Grant Heslov (fuori concorso). Il momento, intelligente, per chiedere a Ewan Mc Gregor («come ti senti, da ex Jedi, ad interpretare il ruolo di uno che non conosce lo Jedi?») e a George Clooney («pensi che la telepatia diventerà una nuova arma di distruzione di massa?») questioni fondamentali e soprattutto inerenti al film. A parte siparietti più o meno organizzati su gay, spogliarelli, iene, Canalis e altro, il mio plauso va a chi è riuscito a fare qualche domanda, questa volta, veramente intelligente (tipo sulla libertà di stampa in Italia, tipo sui riferimenti cinematografici del film, tipo su altro). Perché è vero che il film fa ridere, ma è anche un’altra testimonianza di cinema denuncia. E le cose più assurde del film sembrano essere anche quelle più vere.
Adesso non è mica facile scrivere di un film come Lo spazio bianco, di Francesca Comencini. La questione molto delicata delle nascite premature e l’idea di un’attesa come di uno spazio, di un luogo da visitare, abitare, percepire, rappresentano le cose migliori di un film che soffre dei suoi stessi tanti elementi. Ecco magari un film più asciutto avrebbe funzionato di più, forse con meno semplificazioni e, forse, con meno voglia di voler far quadrare ogni cosa a tutti i costi. Margherita Buy fa fatica a convincere ma trasmette con forza la propria sofferenza, il proprio disagio. Il film fa fatica a convincermi anche perché forse è troppo ridondante nell’uso della musica. Ma non si può non ammettere da parte di Francesca Comencini l’esigenza, formale e concettuale, di mettere in scena la solitudine. E poi secondo me questo film piacerà al pubblico quando uscirà al cinema.
Ma gli umori bassi sono subiti stati rialzati dal film di Heslov. Prendete un film di guerra e mettetelo dentro un racconto narrato in prima persona dal giornalista Ewan Mc Gregor. In più ci aggiungete l’idiozia di un clan hippy capitanato da Jeff Bridges che sceglie Clooney come discepolo, un guastafeste come Kevin Spacey e, insomma, ne esce una frittata di sarcasmo e cinismo davvero esilarante e intelligente che ha nella parapsicologia un’arma letale (per tutti). In più, Gianni Letta (amministratore delegato Medusa che distribuirà il film) ha dichiarato che siccome non è ancora stato scelto il titolo italiano del film attende proposte (L’uomo che fissava le capre? Capre in guerra? Ciccio e Franco e le capre del deserto?).
Lebanon pare piaccia a molti. Resto dell’idea che sia il miglior film, finora, ma tra poco ci sarà un’altra delle mie attese, Shirin Neshat con Women Without Men. Aspetta e spera. Ecco, diciamo che faccio fatica a capire chi dice che Lebanon è un videogame. No, vabbè, diciamo che mi fa incazzare e me ne sto alla larga. Distanza di sicurezza.
A cura di Matteo Mazza
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