Venezia, i film:
Capitalism
E venne finalmente il giorno di Michael Moore e del suo attesissimo nuovo documentario sul capitalismo. Già Oscar per Bowling for Columbine e Palma d’Oro per Fahrenheit 9/11, il regista di Flint si presenta per la prima volta in assoluto in concorso al Lidov, la kermesse, tra quelle più importanti, che gli mancava.
L’accoglienza è stata molto positiva, non solo alle due anteprime stampa, dove ci sono stati lunghi applausi e consensi, ma anche all’anteprima mondiale per il pubblico in Sala Grande, per una standing ovation, che francamente era annunciata. Le lunghe code sono state premiate da un lavoro divertente e intelligente, sicuramente una delle cose migliori finora viste al Festival. Provocatorio come sempre, ma senza eccessivi piagnistei o populismi, Moore dapprima cerca di capire gli effetti che la crisi mondiale ha portato negli Stati Uniti (ci sono persone che devono abbandonare le loro case perché pignorate dalle banche, ragazzi ingiustamente arrestati e tenuti in prigione per arricchirsi, aziende speculatrici che incassano premi assicurativi su dipendenti morti). Poi cerca di spiegarne le ragioni, mettendo in difficoltà non solo quei (pochi) tecnici (immobiliaristi, operatori di borsa) che da lui si sono voluti far intervistare, ma anche le banche (alle quali va a chiedere soldi da restituire agli americani) e alla borsa di Wall Street, circondata in maniera esilarante con il nastro Crime Scene, usato per segnalare la scena del delitto. Graffiante e ironico, ma anche oculato nelle descrizioni, nella ricerca delle informazioni e dei dati, Moore ci introduce nel sistema, indaga, scopre, mostra e ci racconta cose e situazioni che in assoluto non avremmo neanche potuto immaginare senza il suo lavoro. Come è solito fare poi nei suoi lavori, la voce che domina è quella della molta gente comune, truffata, arrabbiata, delusa perché tradita dal sistema. Nessuna star, anche se in realtà compaiono presidenti (ben quattro, da Clinton a Bush, da Obama a Roosevelt con un filmato inedito) e ministri. E Moore avverte lo spettatore fin dall’inizio (anche se con ironia) che il documentario non sarà certo una passeggiata “il film contiene scene non adatte ai malati di cuore, o a quelle troppo impressionabili”, intervallando momenti di riflessione (e di commozione), ad istanti teatrali e davvero spassosi.
Sicuramente è uno dei suoi lavori più riusciti (anche l’ultimo Sicko sulla sanità lo era) anche se questo è forse uno dei più personali e sentiti: c’è suo padre, che ricorda e dialoga con lui di quando lavorava alla General Motors, ci sono i suoi filmati (profetici) di bambino davanti a Wall Street, ci sono i suoi ricordi e le considerazioni, lui uguale agli altri, in credito col meccanismo che li ha danneggiati. Anche se è ancora troppo presto per trarre conclusioni (il Leone d’Oro sarebbe meritato), possiamo dire senza ombra di dubbio che il vincitore (quantomeno morale) della Mostra è proprio lui. Il capitalismo secondo Moore non può non essere visto.
A cura di Andrea Giordano
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