Schegge da Cannes
17 maggio
Scheggia 1 di Andrea Giordano
Cannes vede il suo quinto giorno di Festival, che oggi accoglie uno dei suoi “figli” prediletti, e più maledetti, quel Lars Von Trier (già Premio della Giuria nel 1996 con Le onde del destino e Palma d’Oro nel 2000 con Dancer in the Dark), regista tanto geniale quanto controverso, che presenta il suo ultimo e atteso lavoro, Antichrist, con Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg.
Ma la giornata, caldissima (si toccano tranquillamente i 30 gradi) come sempre, si apre all’insegna della Spagna e al ritorno dopo ben cinque anni di assenza dietro la macchina da presa, di Alejandro Amenàbar, il regista spagnolo, nato a Santiago del Cile, che dopo il successo di Mare dentro (premiato con l’Oscar e il Golden Globe come miglior film straniero nonché con il Premio della Giuria e la Coppa Volpi a Venezia per Javier Bardem) si è dedicato, e innamorato, in questi anni alle letture e studi di astronomia, tanto da iniziare a progettare, per poi finalizzare, quello che ad oggi, è sicuramente uno dei suoi lavori più epici e impegnativi, Agora, oggi presentato fuori concorso. La storia ha luogo nel IV secolo dopo Cristo e si concentra sulla figura di Ipazia, l’ultima “custode” della prestigiosa e antica biblioteca di Alessandria, ma anche donna – simbolo per la società di allora di grande istruzione e tolleranza. Ma la storia a cui assistiamo è anche quella che narra le vicende che videro opposti cristiani contro ebrei e pagani: piazze e strade sono il teatro del dissidio religioso che fece centinaia di morti. Ed in questo scenario di follia che Ipazia, interpretata da Rachel Weisz (premio Oscar per The Constant Gardener), qui fedelmente accompagnata dal marito Darren Aronofsky, tenta di insegnare ai suoi giovani allievi matematica, astronomia e filosofia. Ma il tumulto dei “temibili” e incappucciati paralabani, travolgerà tutto e tutti in nome di Cristo. Un kolossal (costato 50 milioni di dollari) che ci conduce, con un occhio moderno, in un viaggio accattivante, in un momento preciso, significativo non solo per la storicità degli eventi, ma anche per tutto quello che ha rappresentato in ambito religioso. Ma Amenàbar non lo si scopre certo oggi: è un regista acuto, sensibile, dal tocco particolare, più raffinato, che denota umiltà e trasparenza narrativa. E questo film, anche se inferiore rispetto ad alcuni suoi lavori precedenti, sa raccontarsi bene, facendoci/si seguire la pellicola senza troppe pretese. Rachel Weisz è l’insegnante che tutti avremmo voluto avere, almeno una volta..
Voto 7
E mentre il caldo e il caos delle decine, ma cosa dico, delle centinaia di persone, che calcano la Croisette dalla mattina alla sera, cominciano a diventare quasi insopportabili, ecco che giunge sera, il momento più intrigante, quello dell’arrivo dell’Anticristo, quello di Von Trier. Code apocalittiche verrebbe da dire e difatti a malapena riesco ad entrare alla seconda proiezione stampa di giornata, una vera impresa! C’è interesse, lo si palpa in sala, i primi minuti del prologo, sono quelli che hanno fatto parlare del film prima ancora di tutti, come anche alcune discusse scene di sesso esplicito tra i due protagonisti. Silenzio, buio in sala, si parte. Primi minuti degni del Von Trier che abbiamo imparato ad amare e conoscere: una coppia che fa l’amore e il loro figlio piccolo, che trovata aperta una finestra aperta dal vento, si , finendo tra la neve, morto. Il tutto girato in slow motion, inquadrature sfuocate, bianco e nero d’autore, musica lirica di sottofondo. Un inizio che segna niente da dire, peccato che poi la pellicola si arresta, senza riprendersi più. La morte del bambino è l’inizio di un viaggio infernale, diviso da Von Trier in capitoli, che vede marito e moglie, rifugiarsi in una baita sperduta nella natura, vista come ipotetico e simbolico Eden, essere travolti da delle forze incomprensibili che fanno sì che lei (la dolce protagonista di Nuovomondo di Crialese) venga trasformata in una Katy Bates (stile Misery) più sadica che mai. C’è sesso sì, ma alternato a violenza, ad allucinazioni e simbolismi, per molti tratti poco comprensibili. E la gente in sala se ne accorge, ride, invece che inquietarsi, certo un Anticristo che fa ridere non mi era mai capitato di vederlo, ma Von Trier è riuscito anche qui nella sua personale impresa. Un film che doveva rappresentare qualcosa di più profondo, si perde invece per buona parte con delle banalità narrative quasi grottesche che sminuiscono tutto lo sforzo delle prime scene. Un vero peccato. E i fischi alla fine ci sono e anche tanti, anche se qualche tenace del regista non molla e applaude lo stesso. Antichrist tenta di parlarci del rapporto tra bene e male, della follia ossessiva, della coppia, e anche se diretto bene, con taglio creativo e potente, cade nell’errore forse più grosso, quello di peccare nella grande povertà di messaggio. Una pochezza, che anche a un grande autore come lui, questa volta non si perdona. Ma d’altronde lui stesso dà la risposta migliore al perché ha fatto un film del genere: “faccio cinema per me stesso, non per gli altri, quindi non ho niente da dire”.
Voto 5
Mentre un panino sazia il desiderio di fame che tutto il giorno cerco di colmare, la stanchezza comincia ad “impadronirsi” di me…mmm meglio non dirlo a Von Trier, ne potrebbe fare un film!
Scheggia 2 di Giampiero Raganelli
Presentato ieri in concorso Taking Woodstock, l’ultimo lavoro del due volte Leone d’Oro Ang Lee, incentrato sulla leggendaria figura di Elliot Tiber, l’artefice del mitico concerto di Woodstock. E’ dai tempi di Ragione e sentimento, che il regista taiwanese concepisce ogni suo film come un film storico, in costume non facendo nessuna differenza tra l’Inghilterra vittoriana e l’America degli anni Sessanta, avendo per entrambe lo stesso rapporto di distacco. Anche per Taking Woodstock la ricostruzione storica é minuziosissima e fin troppo esibita: dagli abbigliamenti alle pettinature, ogni inquadratura sembra voler dire prepotentemente “siamo nei sixties”. Quello che manca é proprio lo spirito di quei momenti di contestazione, promisquità e libertà, che si riesce a evincere solo da alcune, belle scene, come quella, verso la fine, del trip allucinatorio. Una semplice visione di Parco Lambro di Alberto Grifi basta per capire tutto quello che il film di Ang Lee avrebbe voluto dire. Questo è il limite di tutto il suo cinema recente, che supera solo quando racconta storie davvero sentite, come Brokeback Mountain. Lee rimane un immenso costruttore di immagini, basta pensare alle moltissime inquadrature in split screen e ai lunghissimi, straordinari, carrelli che seguono la manifestazione. Ma si puo’ definire autore, nel senso dei Cahiers du cinéma, un regista che spazia tra Hulk, Lussuria e La tigre e il dragone?
Oggi i due film in concorso sono stati Vengeance di Johnnie To e Kinatay di Brillante Mendoza. To, uno dei più importanti registi di action di Hong Kong, da qualche anno viene invitato ai vari festival internazionali e ha deciso di atteggiarsi a grande autore, cercando di replicare i successi festivalieri del connazionale Wong Kar Wai. Si sa che l’action movie hongkongese deriva dal cinema di Peckinpah, Leone e anche dal polar francese, e To ha deciso di omaggiare esplicitamente uno di questi maestri inserendo un personaggio francese, interpretato dal grandissimo Johnny Hallyday, e di dargli il nome di Costello, proprio come il personaggio di Le samouraï di Jean-Pierre Melville. C’era proprio bisogno di una tale citazione letterale? O é un modo per sopperire ai limiti del film, che funziona con grandi scene d’azione ma che ha anche momenti molto poco credibili e scene che rasentano il patetico?
Autentico cinema della crudeltà é il filippino Kinatay incentrato sul rapimento di una prostituta, il suo omicidio e successivo dissezionamento di cadavere. Il mondo dei bassifondi di Manila è raccontato con una macchina a mano spiazzante. La parte più riuscita è pero’ quella iniziale, dove la macchina da presa si inoltra, con lunghissimi piani sequenza, nel caos della capitale filippina arrivando a mostrare un matrimonio, esempio patetico di perbenismo piccoloborghese, in evidente contrasto col truculento sviluppo successivo del film.
Molto bello il film sudcoreano Mother, presentato per Un certain regard, del regista Bong Joon Ho, che gli appassionati di cinema orientale conoscono come l’autore di Memories of Murder e The Host. E’ la storia di una madre che cerca di difendere il figlio accusato dell’omicidio di una ragazza, ma questo non rende l’idea degli sviluppi narrativi contorti e imprevedibili di questo film: non si riesce mai a capire che piega stia prendendo tanti sono i trabocchetti cui viene fatto cadere lo spettatore. Alcuni elementi della storia sono piazzati apparentemente senza alcun significato, per poi essere ripresi successivamente in questo avvincente reticolo narrativo. E, come già osservato per Park Chan-Wook, anche qui ci sono scene madri strepitose, come quella, inaspettata, del ritrovamento del cadavere. Il futuro del cinema passa per Seoul, non c’è dubbio!
A cura di Giampiero Raganelli
festival ::