Intervista: Sabino Esposito
Qual è secondo te la situazione attuale del videoclip nel nostro Paese?
Credo che escludendo pochi esempi in Italia non vengano realizzati videoclip, ma promoclip. La differenza sostanziale è quella che nel promoclip deve esserci la presenza dell’artista, truccato e imbellettato, attorno al quale in qualche modo si sviluppa il resto. Ci sono anche dei videoclip che dal punto di vista della regia sono buoni, però poi si perdono, il regista non ha mai la forza di poter davvero contrattare il lavoro che sta facendo. O è così o si è fuori e la prossima volta il video lo farà qualcun altro. Una regola ad esempio è che il frontman, il cantante, deve essere quello che viene truccato e ripreso, gli altri sono solo un contorno. Poi a volte succede che gli altri si perdono in questo contorno. Recentemente ho visto un video girato in una macchina, con il cantante che fa il playback e dietro gli altri che si guardano intorno abbracciando delle chitarre. Questa è veramente la miseria del raccontare, quando il tutto potrebbe essere più divertente, potrebbe avere un altro spessore. Però questo punto di vista ormai non è così importante, ma cercare di trovare una persona che sappia disegnare e costruire un’immagine per il pubblico, e si dà per scontato che questa immagine debba essere quella del cantante bello. Il resto del gruppo però c’è, e rivendica un suo spazio, così gli si fa far finta di suonare. Questi sono sempre stati i canoni per fare i videoclip.
C’è qualcuno in Italia che riesce ad uscire da questi schemi?
Uno che ci prova abbastanza è Francesco Fei, poi Alessandra Pescetta sicuramente, e Alex Orlowsky. Il vero videoclip muove meccanismi diversi, lavora più sull’immagine, in modo che vada a scavare nell’immaginario. Anche senza arrivare alle incredibili visioni che può fare ad esempio Floria Sigismondi nei video di Marylin Manson o Chris Cunningham in quelli degli Aphex Twin.
E tu quale strada hai scelto?
Io ho sempre cercato di girare senza playback. Ad esempio quando ho realizzato Piove dei Timoria, era il 1993, il discografico spingeva sul primo piano del cantante. Ho fatto una prima stesura, tutta costruita su immagini che evocavano qualcosa in chi lo guardava. Poi durante la prima presentazione si sono accorti che mancavano completamente i mezzi primi piani del cantante. Me li hanno fatti rigirare. Ho dovuto rifare un set, ed è inutile spiegare che non ci sarà la stessa fotografia e tutto il resto, ai discografici non interessa per niente. Quindi mi sono detto: “Faccio i videoclip perché così posso andare a dire che giro per i Timoria? Chissenefrega”, sarebbe come fare la regia di uno spot di un detersivo. Per fare queste cose in realtà, una volta che si ha un buon direttore della fotografia, non serve molto. Poi saranno le ragazzine a dare il consenso, perché andranno a comprare più dischi ad esempio di Max Pezzali perché viene mostrato come un allegro sfigato o di Pierò Pelù perché viene fatto vedere bello.
Oggi quindi è proprio impossibile fare veri videoclip oppure ci sono strade ancora percorribili, magari attraverso la discografia indipendente?
Si, l’unica possibilità è lavorare con le etichette indipendenti, o con gruppi che hanno già rinunciato a quel mercato che ti fa fare dischi d’oro o di platino. Ci sono gruppi che aspirano più ad un progresso culturale di un certo tipo, per è si importante il proprio discorso, però non è prioritario rispetto alla bellezza, perché chiedono ai registi di coprirgli la musica, lasciandogli carta bianca. Solo alla fine gli dicono se piace o meno. Da questo punto di vista ho avuto fortuna. Stavo girando a Napoli dei documentari in pellicola, una grossa produzione di portata internazionale. Sono rimasto in albergo due mesi e ogni sera mi arrivavano cd promo di gruppi napoletani che volevano partecipare al documentario. Io la sera li ascoltavo, è il minimo che posso fare almeno per poter dire qualcosa ai ragazzi che magari ti aspettano delle ore nella hall di un albergo. Così ho ascoltato il cd dei 24 Grana, e subito ho notato che avevano un’altra marcia, come sensazioni e come sentimenti, perché, che siano positivi o negativi l’importante è che si smuovano i sentimenti. Allora ho cercato di insertare i 24 Grana all’interno del documentario che stavo facendo. Ovviamente non era possibile, le grosse multinazionali si rifiutavano di inserire un gruppo come quello. Mi ricordo quella sera, siamo tornati da Ravello e abbiamo deciso di girare qualche cosa, di molto semplice, che però desse loro la possibilità di far passare il brano musicale. Non potevamo però usare nulla della produzione, quindi ho fatto tutto da solo, ho diretto la fotografia, ho preso la mia cinepresa, un rullo dei miei, e ho girato questo videoclip. Con loro poi è stato bellissimo, non mi hanno mai detto un solo fotogramma da mettere nel film. Le volte invece che ho provato a fare videoclip per grossi artisti, non mi è mai piaciuto il loro atteggiamento. Sono d’accordo a dire che siano dei bravissimi musicisti, meno quando si iniziano a mischiare le cose, non è detto che se sei un bravo musicista sei un bravo regista, un bravo disegnatore, un bravo grafico e così via. Con i 24 Grana invece abbiamo iniziato dal niente e abbiamo realizzato dodici videoclip. E’ uscita una compilation recensita molto bene dal Manifesto che ha fatto subito il tutto esaurito. Ma a parte la recensione e le vendite, che tra l’altro non mi fruttano nulla, dato che cedo i diritti d’autore all’artista, alla fine il videoclip lo fai per te stesso. Ci sono videoclip dei 24 Grana, come Treno, in cui ancora adesso, a distanza di anni, mi ritrovo, ed è questo l’importante. Il bello con i 24 Grana, poi, è stato quello di avere la possibilità di girare più videoclip. All’inizio ovviamente non sapevo che ne avrei fatti così tanti, ma quando ho cominciato a sviluppare il secondo, l’ho pensato come attaccato al primo, anche se non direttamente, in pratica ho avuto la possibilità di raccontare quasi un film, uscito appunto nella compilation di cui parlavo. Questi videoclip danno un’idea di sviluppo, che è uno sviluppo del gruppo e uno sviluppo mio.
Dopo l’esperienza con i 24 Grana a cosa ti sei dedicato?
Da quel momento mi sono diviso, continuo per lavoro a registrare concerti multicamera in diretta, ma non ho più cercato di fare videoclip. Lascio invece che siano i gruppi a venire da me, è molto meglio. Parliamo ovviamente sempre di artisti non a livello commerciale, come i DMA Urban Jazz Funk, grandi artisti e jazzisti, o persone che stanno per partire con la loro esperienza, come i Volwo o i Narcolexia. Con loro ad esempio ho girato un video in Inghilterra che è andato benissimo, in pellicola e solo in tre ore d’orologio. Oggi tutti girano in digitale, io preferisco la pellicola. Mi piace anche lavorare con produzioni più grosse, con più gente, perché più le cose sono discusse più i dubbi si [img4]possono sciogliere, ma quando non succede, faccio il set, la fotografia e le riprese. Questo avviene quando produco qualcosa che non è da vendere, le vere produzioni da filmaker insomma. Quella che voglio fare sul mondo dei videoclip, non è una critica, ma una rivendicazione di autonomia. Quando mi chiamano, fisso un incontro, poi magari c’è poco budget e grandi pretese. Io allora propongo sempre subito un progetto adeguato al budget, richiedendo di non avere interferenze. Il cantante canta e non cambia l’inquadratura così come io giro ma non canto pur essendo un buon suonatore di chitarra e pianoforte. Si è tutti critici cinematografici e registi fin quando non si devono davvero realizzare le cose, che, anche se sembrano semplici quando si vedono, in realtà non lo sono.
Un’ultima domanda, cosa ne pensi invece dei videoclip animati?
L’animazione è interessante, incomincia ad essere l’altra frontiera del videoclip in questo momento, anche se poi alla fine è un genere che non va per il semplice fatto che non piace ai discografici dato che il cantante non appare con il playback. Loro vivono di playback.
A cura di Alberto Brumana
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