New York e l’11/09: un immaginario reale – Terza parte
La 25ma ora, il peso dell’assenza
Immagini fisse come fotografie, blu notte, polvere illuminata da fasci di luce azzurra, visti da vicino, da sotto, si intuisce la loro potenza, l’altezza che quella luce riesce a raggiungere. Qualche palazzo intorno che sembra disegnato, poi, insieme alla colonna sonora che sia apre, anche l’inquadratura si fa più larga: New York di notte, sei mesi dopo l’11 settembre 2001, onora i suoi morti con il “Tribute of light”, grandi fari che lanciano fasci enormi di luce a illuminare un vuoto, a rendere visibile l’assenza. Spike Lee prende queste immagini documentaristiche come sfondo ai titoli di testa del suo film: le prime immagini cinematografiche su Manhattan dopo l’attentato sono limpide e dolorose, ma tanto belle da togliere il fiato. E anche se il tempo non è ancora passato, nel film la mancanza delle torri è già una normalità, un presente che è già diventato passato per i personaggi. Dall’attico di Frank Slaughtery la visione di questa tragedia normalizzata è attraverso un cinematografico vetro orizzontale; rimane come un sottofondo inquietante che va a sovrapporsi alla storia di Montgomery e alla sua personale tragedia. L’ultima sera di Monty è l’ultima sera della sua vita, senza possibilità di appello, di speranza o di ritorno. Una fine raccontata sulle macerie del World Trade Center.
La frequentazione di queste due tragedia, una personale e una mondiale, si fa quotidiana, si fa “normale” per Spike Lee, che riesce a mostrare la realtà senza falsi ideologismi, senza propagandismo, ma con un cinismo buono. “Stasera finisce tutto, affronta la vita”. Poi l’inquadratura stringe sulle macerie, le osserva, scruta e chiude gli occhi.
Per Monty l’inizio del film è l’inizio del racconto della sua personale fine: spacciatore dall’animo gentile, Montgomery sarà costretto a giorni ad andare in galera per sette anni. Deve affrontare la fine della sua agiata vita e, in un momento di rabbia, si sfoga davanti ad uno specchio, pieno di odio per se stesso e per la città in cui abita. E inizia un viaggio dai colori sovraesposti, un viaggio che fa parte di quella 25ma ora di cui parla il titolo: un momento in cui la vita viene vista dall’alto, oltre il tempo, oltre le ore di ogni giornata. È, insieme, l’ora della lucidità e dell’odio, della speranza e dell’illusione, quel momento in cui sarebbe possibile osservare la realtà e comprenderla. La 25ma ora è quel momento dopo l’11 settembre dove il mondo avrebbe potuto cambiare, dove la speranza era quella di una visione matura degli avvenimenti, critica, nuova, comprensiva.
Ma Monty nella sua 25ma ora si scaglia con odio contro tutto: mendicanti, lavavetri, tassisti sik e pachistani, i gay di Chelsie, i bottegai coreani, i mafiosi russi di Brighton Beach, i commercianti di diamanti ebrei della 47th, gli agenti di Wall Street, Bush e Cheney che sapevano “di quel casino”, i portoricani dominicani e italiani, le signore dell’Upper East Side, i negri di Harem, i poliziotti corrotti, i preti pedofili, la Chiesa e Gesù Cristo, Bin Laden e i fondamentalisti islamici, gli attici di Park Avenue, le casette a schiera di Astoria, le case popolari del Bronx, i loft di SoHo, i palazzoni di Alphabet City, tutta New York, che cada e sia sommersa. Una rabbia che implode, un personaggio quello di Montgomery, che non riesce ad accettare le proprie colpe.
Ma la 25ma ora è anche il sogno finale di una nuova vita: la speranza impossibile di fuggire e rifarsi da capo in un’America vergine, spazi ampi, deserto, piccole comunità innocenti. La possibilità di ricominciare, impossibile sogno di un’ipotetica ora nella storia americana che non può mai scoccare.
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A cura di Francesca Bertazzoni
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