New York e l’11/09: un immaginario reale – Seconda parte
La guerra dei mondi, il nemico è dentro
Fulmini improvvisi e violenti, come un segnale per risvegliare qualcosa, come se qualcuno o qualcosa stesse inseminando la terra con strumenti di morte. Il dominio assoluto dell’uomo vacilla, il suo potere diventa fragile, attaccabile e distruttibile.
Spielberg racconta ancora una volta la grande ossessione, rappresenta Il Nemico, l’Altro per eccellenza, nella forma di alieni conquistatori. E l’Altro non atterra dallo spazio, ma emerge dalle viscere della terra, è un nemico interno, incorporato, nascosto, che, improvvisamente, attiva la sua forza distruttiva.
E la devastazione non può che essere spettacolo: spettacolo per noi spettatori, sopraffatti da effetti speciali impressionanti, golosi di vedere la grandiosità del cinema, la fantasia più gigantesca diventare quasi realtà sullo schermo; ma anche spettacolo nello spettacolo, dove i personaggi del film sono irresistibilmente attratti da quella visione incredibile, fotografando e videoriprendendo il mostro salito dalla terra. E le notizie del tripodi, le loro prime immagini complete, noi le vediamo insieme a Ray da un’unità della CBS, nei loro schermi televisivi.
Quando il massacro ha inizio, una videocamera digitale cade a terra e nel suo schermo gli uomini iniziano a morire. Polvere bianca, vestiti che svolazzano, vetri che esplodono, palazzi che si aprono a metà. Rey che torna a casa coperto di polvere bianca. Qui Spielberg prende le immagini televisive dell’11 settembre e le trasporta all’interno del suo cinema: l’immaginario fantascientifico della Guerra dei mondi diventa riconoscibile, un “già visto” inquietante che annulla le differenze tra rappresentazione e realtà. La catastrofe totale diventa cosa concreta, tanto che la piccola Rachel chiede: “Ma sono i terroristi?”. Lo spazio, che prima era sicuro, ora sta saltando in aria.
The village, pauroso isolamento
“Il Reale che ritorna ha la forma di un’(altra) apparenza: proprio perché è Reale. Cioè per via del suo carattere traumatico/eccessivo, siamo incapaci di integrarlo in /ciò che sperimentiamo come) la nostra realtà, e siamo quindi obbligati a percepirlo come un’apparizione angosciante, come un incubo.” (Slavoj Zizek. Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi Melusine, 2002)
The village è una straordinaria partitura sulla paura, come concetto e come rappresentazione. Shyamalan riesce a creare un film non “di” paura, ma “sulla” paura, scardinando gli stilemi del genere, facendo emergere immagini inquietanti, come le bacche rosse, gli animali squartati, i rami intrecciati del bosco, rumori, gocciolii, scricchiolii, che sono i segni di cui si nutre un film teso a far nascere la paura. Soprattutto, il mistero che si nasconde nelle Creature Innominabili è costruito pezzo per pezzo dalla loro stessa assenza: la loro presenza è più che mai reale e minacciosa, ma connotata solamente da rumori, da qualche visione fugace in una pozzanghera o al lato dell’inquadratura. Il nemico più pauroso è proprio quello che non si riesce a vedere, che non è possibile individuare chiaramente.
Il villaggio è così un luogo chiuso all’esterno, fermo a un periodo passato, che ha voluto isolarsi per sfuggire al dolore della vita. E che si è circondato di paura per riuscire a preservarsi, che insegna la paura nelle scuole per piegare la naturale aspirazione verso l’esterno dei giovani, che usa la paura come uno strumento di dominio, perché nessun tipo di azione “sovversiva” cambi lo stallo in cui la comunità ha deciso di vivere. E questo stallo trasforma lentamente gli anziani in assassini.
Fino a che il villaggio stesso non produce dolore e tragedia: uno dei suoi membri, l’elemento deviante, il pazzo, ferisce gravemente Lucius. E Ivy, cieca, è l’unica a cui viene rivelata la verità e permesso di attraversare il bosco per andare in città: come suo padre le dice nella “casetta dove non si può entrare”, Ivy non deve avere paura, perché è tutta una messa in scena. Le Creature Innominabili sono solamente fantocci, segni concreti dell’incapacità degli anziani di accettare, vivere e elaborare i propri lutti passati. I mostri del bosco altro non sono che “l’apparizione angosciante di una realtà eccessiva e traumatica”.
Ma la paura, insegnata per generazioni, è entrata nella mente di Ivy, sebbene lei stessa sia stata testimone del disvelamento delle menzogne sul bosco. La paura la accompagna nel suo viaggio, le favole imparate negli anni le rimbombano in testa, tanto che le creature innominabili diventano vere, totalmente visibili, concreti mostri orrorifici.
Come a dire che la paura non si può sconfiggere, ma solo subire. Come a dire che la paura è un mezzo per conquistare potere sugli altri. La paura annulla la razionalità e l’intelligenza, scatena reazioni al limite della follia, crea mostri che sono in grado di soggiogare un intero popolo.
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A cura di Francesca Bertazzoni
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