Tutti gli uomini di Cannes I
AKI KAURISMÄKI
I fratelli Kaurismaki trascorrono l’infanzia in Finlandia separati. Aki, il più piccolo dei due, nasce a Orimattila il 4 aprile del 1957. Nei suoi studi superiori si dedica al giornalismo presso l’Università di Tampere. Tra i suoi infiniti interessi non manca il cinema che lo farà ricongiungere al fratello in una fruttuosa collaborazione artistica. Agli esordi, Aki non è che l’aiuto regista del più anziano, Mika, con il quale realizza a quattro mani il documentario rock “La sindrome del lago Saimaa” (1981). Trasferitosi negli Stati Uniti, firma il cortometraggio “Rocky VI” (1986); seguito malvagio e satirico della famosa serie. “La mia vendetta su mister Stallone. Personalmente lo considero uno stronzo”, afferma Kaurismaki.
Ma il primo film da regista indipendente è “Crime and punishment” del 1983, un adattamento del capolavoro di Dostoevskij che dà l’avvio a una stagione di pellicole sotto il segno di alcuni grandi classici della letteratura, come “Macbeth” (1987); “Amleto si mette in affari” (1987); “Bohemian life” (1992); un’interpretazione moderna del romanzo di Henri Murger e dell’opera musicale di Puccini, “La Bohéme”, e infine con “Juha” (1999); adattamento di un classico della letteratura finlandese di Juhani Abo, completamente privo di dialoghi e con dei cartelli esplicativi, nello stile del vecchio cinema muto.
Il cinema di Aki è costruito su aneddoti piuttosto che sceneggiature. È metodico ma completamente libero, anticonformista e comunque senza eccessi o forzature. Centrale nelle tematiche affrontate dal cineasta è la “triologia dei perdenti”, da lui stesso così battezzata e comprendente “Shadows in paradise” (1986); “Ariel” (1988) e “The match-factory girl” (1990). E’ un cinema della marginalità e della solitudine che preferisce il sentimento alla provocazione e al simbolismo. Una passerella di perdenti, di personaggi illusi e romantici, di operai rassegnati alla monodimensionalità della loro esistenza, dove gli interpreti (primo tra tutti Matti Pellonpaa, l’attore preferito dei due fratelli, scomparso tre anni fa) non recitano ma parlano con gli occhi o con gesti appena accennati, un cinema che ai virtuosismi della macchina da presa preferisce un pudico immobilismo dello sguardo.
Non manca la commedia sperimentale, “Leningrad Cowboys Go America” (1989); “Leningrad Cowboys Meet Moses” (1993) e “Nuvole in viaggio” (1996); divertente pellicola che prende spunto da temi gravi come la disoccupazione e la recessione economica.
Vincitore del Gran Prix all’ultimo Festival di Cannes è il film “L’uomo senza passato” pellicola ancora popolata da inquadrature su caratteri afasici, imperscrutabili, dotati in eguale misura di una reattività letargica e di un romanticismo remoto. Il protagonista dopo un violento pestaggio, si ritrova, adottato da una famiglia di drop-out di periferia, a vivere in un container. Intrecciando una relazione con una operatrice di un’associazione di volontari che presta soccorso ai barboni e agli emarginati, alla fine, risale lentamente la china di una rassegnazione stordita e penosa, fino a conquistare con insospettabile tenacia la propria dignità.
DAVID CRONENBERG
Nasce a Toronto nel ’43, crescendo nella raffinata cornice borghese di College Street, letteralmente sommersa dai volumi del padre bibliofilo e giornalista di origine ebraica. Passa l’adolescenza a scrivere racconti di fantascienza. I suoi interessi si proiettano su fotografia ed entomologia con una passione spiccata per i lepidotteri. David si iscrive infatti alla facoltà di Scienze che abbandona presto per trasferirsi a quella di Lettere dove si laurea in Lingue e letteratura Inglese. Debutta nel ‘66 col cortometraggio “Tranfert” e si ripete un anno dopo con “From the drain”. A quell’epoca è poco conosciuto ma dal ‘75, dopo aver firmato due opere sperimentali e d’avanguardia (“Stereo” del ’69 e “Crimes of the future” del ’70) sigla il suo ingresso definitivo nel Walhalla del cinema fantastico contemporaneo. È l’anno de “Il demone sotto la pelle” interpretato da Barbara Steele, grande attrice dell’horror anni ’60. Di qui, ecco in nuce diverse anticipazioni del suo cinema futuro: Antonioni, Godard e il surrealismo. In primo piano le tematiche politiche e sociali del ’68 e il forte attaccamento alle avanguardie di arti figurative del Novecento (Andreas Serrano, Kiki Smith e Cindy Sherman) e letterarie (Burroughs, Ballard e la nuova fantascienza, il Cyberpunk). In quegli anni firma le opere che gli daranno le prime tranches di popolarità (“The parasite murders”, “Rabid” e “The Brood”) e che con un’originalità prima sconosciuta elaborano implicazioni metafisiche e politiche sul tema della possessione dell’individuo da parte di entità sconosciute. Caratteristico in Cronenberg l’impatto visivo di ricercati effetti speciali. Un cinema “difficile”, di una spettacolarità che coinvolge un vasto pubblico. E’ un cinema di violenza e orrore che veicola il dramma dell’identità negata in una società ormai messa in crisi dal caos, dallo sviluppo tecnologico e dal dubbio sul domani. Da “Scanners” (’81) a “La mosca” (’86); da “Videodrome” (’82) a “Crash” (premio speciale della giuria al Festival di Cannes del ’96); il bandolo della matassa è intriso di quella sostanza che Cronenberg va ripetendo dai tempi di “The parasite murders”: “l’orrore è dentro di noi, il nostro universo l’abbiamo inventato noi. Portiamo il germe della nostra distruzione con noi. Ovunque andiamo.”
E il misterioso filo David lo trascina anche attraverso la sua ultima fatica, quest’anno in concorso a Cannes. “Spider”, è tratto dall’omonimo best seller di Patrick McGrath. Nel cast, oltre a Phiennes (“Il paziente inglese”) ritroviamo Miranda Richardson e Lynn Redgrave. Il regista canadese lo preannuncia come un classico dell’orrore, ma non in senso soprannaturale. Un orrore personale, terreno, freudiano, basato sull’inconscio e sulle paure umane. Un viaggio rapsodico nella “memoria contaminata” di un uomo che da bambino vide la madre brutalmente assassinata dal padre. Ripescando dal suo armadio i fantasmi di sempre, tra sessualità, ossessione per il corpo e le sue mut(il)azioni, Cronenberg cerca di distaccare inizialmente lo spettatore dal protagonista, troppo pericoloso, fino a fargli credere, uscendo dalla sala, che Spider è lui stesso.
MANOEL DE OLIVEIRA
Ancora attivo a oltre novantanni, Manoel Candido Pinto De Oliveira nasce il 11 dicembre 1908 a Oporto (Portogallo). È il maestro del cinema portoghese, dallo stile lento, antinarrativo e straniante in cui predomina la raffinatezza formale. Nasce in una famiglia di borghesi industriali, grazie ai quali potrà apprezzare le pellicole di Chaplin e Max Linder. Studia tra Portogallo (Collegio Universal) e Spagna (Collegio Gesuita de La Guardia). A vent’anni entra nella scuola per attori cinematografici fondata da Rino Lupo. Debutta nel cinema come comparsa assieme al fratello nel 1928 in “Fatima miracolosa” (Fátima Milagrosa) e come attore partecipa al primo film sonoro portoghese. Nel 1929, con la sua prima cinepresa Kinamo, comincia a girare un cortometraggio sull’ansa fluviale del Douro Douro, “Ansa fluviale” (“Douro, faina fluvial”, del ’31) che uscirà due anni dopo. Atleta, nuotatore e corridore automobilistico, alla morte del padre eredita l’azienda paterna insieme ai fratelli. Torna a girare cortometraggi nel 1938 con “Miramar, plaia de rosas” e “In Portogallo adesso si fabbricano automobili” (Em Portugal já se fazem automóveis). Il suo primo lungometraggio da regista è “Aniki Bóbó” (1942) – un film sull’infanzia adattato da un racconto di Rodrigues de Freitas – che verrà paragonato ai film di De Sica – Zavattini “I bambini ci guardano” e “Sciuscià”.
Nel 1955 de Oliveira è a Leverkussen, in Germania, per studiare il colore presso i laboratori AGFA, e l’anno dopo gira il documentario Il “Pittore e la città” (1956). Negli anni sessanta Manoel viene finalmente riconosciuto in campo internazionale con un omaggio al Festival di Locarno (’64); e durante una rassegna della sua opera alla Cinematheque di Henri Langlois, a Parigi, nel 1965.
Nel 1971 de Oliveira gira “Passato e presente”, grazie all’appoggio della Fondazione Gulbenkian. Dagli anni ottanta la sua carriera si costella di premi e riconoscimenti, e l’anziano maestro è ormai stabile sull’incredibile ritmo di un lungometraggio l’anno.
A Cannes il cineasta presenta il suo “Principio dell’incertezza” che attinge -a modo suo- dalla “teoria di anti-determinazione” di Heisenberg e dal romanzo omonimo della sua scrittrice più amata, Agustina Bessa-Luìs: le vicende pericolosamente intrecciate tra amori e tradimenti di Antonio, membro di una ricca famiglia, e del suo amico José, figlio di una cameriera. Destini che si scontrano, dunque, per una storia che finirà per consumare tutti i protagonisti.
FRATELLI DARDENNE
[img4]Engis è il più anziano (21 aprile ’51); Luc invece (10 marzo ’54) è di tre anni più giovane, ma tra i due non c’è “il più grande” o “il più piccolo”. Artisticamente almeno. Entrambi immersi fin da sempre sotto cumuli di bobine di celluloide, realizzano insieme numerosi documentari. I più rilevanti sono “Le chant du rossignol” (’78) e “Lecon d’una universite volante” (’82); prodotti dalla Dèrivesm una delle case di produzione di loro proprietà ( l’altra, del ‘94 è Les Film du Fleuve). Nel ‘96 dirigono il film che per primo ha messo in luce i due cineasti: si tratta di “La promessa”, interpretato da Olivier Gourmet, protagonista anche nel loro ultimo impegno cinematografico a Cannes 2002. Il film, con i tipici tratti documentaristici ci racconta la vicenda di Igor, giovane meccanico alla ricerca della propria dignità.
Nel 1999 dopo una carriera vissuta in comune, che nel cinema ha trovato fin dagli esordi le sue immagini stilistiche, cristalline e inconfondibili, arriva, immancabile, la Palma d’oro al Festival di Cannes 2000 per “Rosetta”. Nello stesso anno, al festival francese, Luc è stato anche investito della carica di presidente della giuria incaricata di premiare il miglior cortometraggio.
Quest’anno, i Dardenne affondano l’obiettivo della cinepresa nel dolore. Il risultato è un film nudo e aggressivo, introspettivo. Essenziale è privo di musica, “Le fils” è un cupo dramma di osservazione su individui sconfitti, dall’aspetto normale. Incontriamo Olivier (che ha vinto il premio come miglior attore); alle prese con la sua tragedia, con l’assassinio di suo figlio e, poco più tardi, con l’omicida del piccolo, in un turbine di risentimento represso e vendicativo, contrastato dall’ugualmente forte desiderio di capire e capirsi.
Come molte pellicole in competizione quest’anno il tema resta il mancato superamento del dolore e la paura della sincerità dei sentimenti. Ma stavolta i fratelli, alla disperazione concedono una speranza, restando sempre fedeli alla riproduzione degli stati d’animo che alterano equilibri interni precari. Tuttavia è l’inquadratura, straordinaria, che i Dardenne stringono addosso a Olivier, a non essere mai abbastanza larga perché il mondo circostante ci distragga dall’inferno muto che gli cuoce dentro.
GASPARD NOE’
Shock e brutalità feroce senza nessun sottinteso. Tutto cozza col suo volto dolce e calmo.
Nella sua ultima fatica, i titoli di coda scorrono dal basso verso l’alto e la cinepresa piroetta all’indietro, in preda alle convulsioni, procedendo a spezzoni verso l’inizio del film (o verso il paradiso?) , quasi a stabilire un aggancio con la sua opera prima, Solo contro tutti.
E solo contro tutti, critica -e spettatori tramortiti- al primo posto, questo giovane regista è ad ogni costo a causa del suo gusto per un cinema di forte impatto.
Garspard Noè, nasce a New York nel 1963. Cresce a Buenos Aires con la madre militante di sinistra ai tempi di forte tensione. Si trasferisce in Francia, dove nel ’91 realizza il suo primo provocatorio, cortometraggio “Carne”. Sei anni più tardi recita un piccolo ruolo nel film scandalo di Jan Kounen, “Doberman”, interpretata dalla Bellucci. Nel ‘98, di nuovo regista, dirige il secondo cortometraggio, “Sodomites”, riconfermando l’eloquenza del suo stile. Lo stesso anno è la volta di “Seul contre tous”, presentato a Cannes, film cupo e senza nessuna indulgenza per la società e l’umanità in genere. Nel 2002, ritornato sulla croisette, con un altro film, “Irreversible”, interpretato dai coniugi Bellucci-Cassel, Noè azzarda, convinto, di essere andato oltre la scena dello stupro di Kubrick in Arancia Meccanica. Irréversible è un film nero che pesca dagli forzati oblii notturni, un ritratto estremo dell’anormalità che diventa routine, tra l’indifferenza di tutti per l’abitudine e l’assuefazione al sangue e alla violenza. E’ tutto eccessivo, fuori controllo e senza regole morali, ma il film, nella sua studiata trasgressione mediatica, resta affascinante ed aggressivo. Riprese da vero capogiro!
A cura di Fabio Falzone
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