Gli occhi del selvaggio
Per alcuni registi il cinema è una professione, per altri (pochi a dire il vero); è una vocazione, una missione. In quest’ultima categoria rientra senza dubbio Werner Herzog. Ogni suo film ha il sapore di una sfida, in cui si sente quasi sempre un immancabile sentore d’amara sconfitta, ma i suoi antieroi pur essendone ben consci vanno avanti, procedono oltre, ai confini del mondo: perchè questo è il loro destino.
Si confrontano con realtà lontane, come ha fatto nella sua vita le stesso Herzog, per meglio sentire ardere nelle loro anime dilaniate il fuoco delle tenebre dell’ignoto e trovare l’onore nel tetro inferno del mistero e del sogno.
Fanno ciò attraverso un viaggio, che non porta però a ritrovare se stessi, bensì a perdersi completamente in uno straniero urlo di pazza libertà.
In questo viaggio avviene uno scontro con le popolazioni di paesi oscuri che sconvolgono gli europei con i loro occhi impregnati di barbarica magia e ferocia.
Questi popoli sono spesso nomadi e proprio in questa loro eterna partenza c’è un momento di tragica somiglianza coi protagonisti che sono esuli senza patria, odiati da qualunque porto e portatori di un senso dell’onore tanto profondo da non poter essere compreso dai così detti “civilizzati”. Spesso si tratta di indios, ciò accade in “Aguirre, furore di Dio” e in “Fitzcarraldo”, ultimi re e guerrieri appartenenti al cuore di tenebra della foresta che però in “Aguirre, furore di Dio” è un’inespugnabile fortezza da cui si possono intravedere i loro occhi lucenti e famelici in attesa di lanciare fracce avvelenate contro gli uomini del titano Kinski esasperato dal suo sogno di onnipotenza. In “Fitzcarraldo” le nebbie che si vedono all’inizio risultano essere una trasfigurazione in terra amazzonica dei paesaggi nebbiosi e nordici di Friedrich, il pittore romantico tedesco. Dalle nebbie si intravede il tetro splendore dell’inferno verde nel quale quest’altro titano sarà addirittura considerato Dio dagli indios. Egli aprofitterà di questa credenza ma sarà il popolo della foresta a realizzare il proprio sogno.
Per il bandito Cobra Verde invece sarà guerra dichiarata con le popolazioni del Benin tra tradimenti e alleanze in un gioco al massacro da cui usciranno vincitori solo la morte e la sopraffazione.
Rapporto di mistreriosa complicità c’è invece tra il vampiro Nosferatu e gli zingari, in un horror unico che unisce suggestioni wagneriane al fascino del nomadismo. Qui i rom sono gli unici in grado di capire il vampiro proprio per la loro condizione di diversi, di parria: il loro sangue non nutre la terra ma l’oscuro cielo notturno tra gli ululati malinconici e creudeli dei figli della notte, i lupi.
L’animo selvaggio di queste popolazioni ha sconvolto e interessato il cineasta anche nella sua attività parallela e sempre presente del documentario. Parliamo di “Woodabe – I pastori del sole” in cui l’occhio malinconico di Herzog si sofferma su una popolazione nomade odiata dai vicini e sulla sua disperata, lenta agonia. Risalta come pone la loro miseria, essi ancora festeggiano la festa dell’amore in cui gli uomini si truccano e dimostrano il più possibile il biancore dei denti e degli occhi, segno di divina bellezza, facendosi quindi scegliere dalla ragazze per una notte di passione. Essi si considerano il popolo più bello della Terra e per sottolineare ciò Herzog utilizza come colonna sonora, mentre riprende i loro volti quella che ritiene la più dolce voce mai esistita: il canto angelico di Moreschi, l’ultimo castrato, registrato nei primi anni del secolo. Dopo la festa i Woodabe torneranno nel deserto, nel mito e nell’oblio.
Forse in questa ossessione per i popoli lontani, selvaggi e barbari si trova l’eco lantana eppure così vicina di un sogno giovanile di Herzog, quando tentò di fondare nel cuore del Messico uno stato indiano utopistico, una speranza folle, proprio come quella dei suoi viaggiatori, eroici e disperati.
A cura di
approfondimenti ::