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Il pendolo dell’anima

Takeshi Kitano sul setIl cinema di Takeshi Kitano è lievemente ripetitivo. La prima impressione che dà è questa. La seconda è che i personaggi parlino molto poco; Kitano, poi, nei suoi film non parla quasi mai.

Puntualmente, in ogni sua nuova pellicola si ripresentano gli stessi elementi: la Yakuza (la mafia giapponese); il viaggio, il mare e gli immancabili giochi sulla spiaggia. La violenza. E la dolcezza.
Entro questi due poli è contenuto il mondo cinematografico di Kitano: maggiore è la violenza di cui questo mondo è capace, maggiore sarà la dose di dolcezza che ne seguirà.
Il regista stesso, in un intervista, afferma che i suoi film rappresentano il continuo oscillare di questo pendolo: che passa dalla violenza più brutale alla tenerezza, da momenti di delicatezza a cattiverie più o meno divertenti, spesso un po’ crudeli.

Ne “L’estate di Kikujiro” (1999) il personaggio interpretato da Kitano coinvolge due motociclisti incontrati per caso in surreali giochi e pantomime per fare divertire il bambino con cui sta viaggiando; chi si diverte di più è tuttavia Kitano stesso, forse solo per il sadico piacere di poter tiranneggiare i due malcapitati.
“L’estate di Kikujiro” rappresenta l’oscillazione positiva del pendolo: è scherzoso e vivace, solare, e incredibilmente non muore nessuno.

Nel successivo “Brother” (2000) il pendolo tocca il valore opposto: è un film teso, violento, forse l’opera più violenta di Kitano finora. Non concede allo spettatore neanche uno spiraglio di luce, un momento leggero. E’ inoltre il suo primo film “americano”: dunque diversi scenari, nuovi elementi che arricchiscono vecchie tematiche. Ora lo scontro è tra Yakuza e altre bande di criminali: portoricani, italiani, afroamericani. Mai come in quest’opera Kitano sembra interessato non tanto alla morte, ma al come gli uomini, e gli Yakuza in particolare, muoiono. Sconvolgente la sequenza in cui un membro dell’organizzazione, ingiustamente accusato di tradimento, fa harakiri di fronte ai compagni, squarciandosi il ventre in segno di sommo sdegno, a prova della sua totale fedeltà.

“Hana-bi” (1997) oltre a essere la migliore pellicola del regista, è anche la sua opera più equilibrata: l’oscillazione tra violenza e tenerezza la rende particolarissima. La prima parte ha sequenze di violenza degne di un film di Tarantino; la seconda, quella in cui inizia il viaggio, presenta scene rarefatte, così intense e allo stesso tempo delicate da sembrare uscite da un film di Antonioni.

I lavori precedenti (“Violent Cop” del 1992, “Sonatine” del 1995) contengono elementi che ricompaiono puntualmente nei film successivi. Kitano non ha paura di ripetersi: ogni nuova pellicola diventa un’occasione per ampliare, per approfondire una poetica che, a una prima impressione, sembra limitata e ripetitiva, ma che si arricchisce invece sempre più, e che accostandosi a temi come la morte, il dolore, la lealtà, la solitudine, l’amore, può considerarsi in mille maniere, ma non può dirsi limitata.

[img4]Con “Brother” è apparso chiaramente come Takeshi Kitano sia giunto a una svolta della sua carriera come regista. Come sarà il suo prossimo lavoro?
Quando l’ultimo film uscì nelle sale, su un giornale si poteva leggere una recensione che, se pure non troppo entusiasta del film, terminava con questa frase: “Un Kitano in fase di transizione rimane comunque superiore alla maggior parte del cinema attualmente in circolazione.”
Sottoscriviamo pienamente, e attendiamo.

Filmografia:
Violent Cop (1989)
Boiling Point (Jugatsu) (1990)
A Scene at the Sea (1991)
Sonatine (1993)
Getting Any? (1995)
Kids Return (1996)
Hana-bi (1997)
L’estate di Kikujiro (1999)
Brother (2000)

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