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Come mercurio in una crepa

Come mercurio in una crepa

«Il maggiore Amberson aveva fatto fortuna nel 1873, quando gli altri le fortune le perdevano, e la magnificenza degli Amberson cominciò allora». Questo l’incipit Booth Tarkington   (1869-1946)da cui prende il via il capolavoro di Booth Tarkington, affresco di un’epoca in bilico tra l’antico e il nuovo, raccontato attraverso le alterne vicende di tre generazioni di una dinastia americana: gli Amberson, appunto.

Ne è protagonista George Amberson Minafer, arrogante nipote del fondatore della fortuna della famiglia, cresciuto tra gli agi di un’aristocrazia ormai in declino, superata da una nuova generazione di finanzieri e imprenditori. La parabola di formazione del giovane George (dall’agiata aristocrazia del midwest alla vita precaria e difficile della classe operaia) si intreccia ai mutamenti sociali dell’America di fine/inizio secolo, quando le automobili, ritenute una bizzarria da inventori dell’ultima ora, iniziavano a prendere il posto delle carrozze al grido incredulo dei passanti: «Compratevi un cavallo! Compratevi un cavallo!».

Fu allora che nacque la città, fisicamente e come idea, fagocitando gli individui, le famiglie e tutti i retaggi dell’antica Weltanschaung; i volti noti scomparivano assorbiti dalla massa e il condominio sostituiva l’antica villa; l’aria iniziava ad addensarsi: «la città [...] a mano a mano che si espande sembra che si vergogni di se stessa, e così crea questa nube per nascondercisi dentro».

Una sottile ironia pervade il racconto, lo sguardo dell’autore è divertito nelle digressioni sui costumi dell’epoca, ma amaro nel constatare le conseguenze del cambiamento.

Sullo sfondo della vicenda primaria, come venatura malinconica presente in tutta la durata del racconto, la storia d’amore mancata tra la bellissima madre del protagonista e un uomo al quale la vita riserva una seconda occasione. E poi ancora, una carrellata di personaggi a tutto tondo travolti dal cambiamento della società, nostalgicamente stupiti – e il lettore con loro- di quanto sia infido l’operato del tempo sulla vita. «Mi sa tanto che quella polvere d’oro di cui parla fosse solo la sua giovinezza che gli torna in mente»: splendori e miserie dell’individuo fattosi schiavo di una società da lui stesso creata, che passano attraverso un’analisi psico-sociologica sempre acuta e lucida, incarnata in una narrazione corposa ma lieve, splendidi dialoghi, pensieri, sospiri.

Pubblicato per la prima volta nel 1918, I Magnifici Amberson vinse il premio Pulitzer. Lo splendido romanzo attirò l’attenzione di Orson Welles, il quale ne trasse il film L’orgoglio degli Amberson (USA, 1942), drasticamente ridotto dalla RKO dai 131 minuti originali agli 88 infine distribuiti, che includono uno stupido finale girato dall’assistente Freddie Flick. Welles volle sottolineare, nel film, “il deteriorarsi della personalità, il modo in cui la vecchiaia ci sminuisce tutti, soprattutto se vissuta in povertà. La fine della comunicazione tra le persone, e la fine di un’era”.
Come è stato possibile che ci sia voluto un secolo per vederlo pubblicato in Italia?
Traduzione di Martina Testa e Adelaide Cioni.

L’autore
Booth Tarkington (1869-1946), raggiunse un fulmineo successo con il suo primo romanzo, The gentleman from Indiana (1899), è forse meglio ricordato per le popolari avventure di Penrod e Seventeen (1916). Vinse un secondo premio Pulitzer con il romanzo Alice Adams (1921), anch’esso diventato un film con Katharine Hepburn. L’intera sua opera è inedita in Italia.

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