Germany’s Next Top Model
Non posso più procrastinare. Ho un tarlo che mi rode dentro. Devo confessare. Da qualche tempo ho preso un vizio: io guardo Germany’s Next Top Model. Lo ribadisco, con il capo cosparso di cenere e le ginocchia segnate dai ceci: io guardo Gi-Enne-Ti-Emme. La cosa lascia persino me stesso un pochino di stucco, un po’ perché la tele non la guardo mai – a parte il TG1 o il TG2 tedeschi che, a differenza dei loro compari italiani, informano – e un po’ perché non mi sono mai davvero appassionato al trashume catodico, nemmeno a quello nostrano. La causa principale di questa mia perversione non è però la brama di vedere una masnada di sughette urlanti tra i sedici e i ventitré anni che si sbiottano e troieggiano davanti a un obiettivo, sebbene quest’ultima frase paia tutt’altro che una minaccia (la mia predilezione per la frutta matura dovrebbe comunque scagionarmi da ogni accusa).
Tutto è iniziato per caso, un paio di mesi fa, con la quarta stagione già a metà. Il format ideato negli USA dall’ex-modella Tyra Banks – troppo vecchia per continuare con il suo, ehm, lavoro – è stato importato in Prussia dalla premiata ditta Klum, composta da un padre piazzista che vende il prodotto-figlia sul mercato catodico e dalla suddetta figlia che – troppo vecchia per continuare con il suo, ehm, lavoro – riesce così a espandere il suo core-business, rinnovando ed espandendo il suo brand.L’algida stangona venuta dalle sponde del Reno sbarca il lunario autoincoronandosi portatrice di un “edonismo dal volto umano”, forse nel tentativo di far impallidire Alexander Dubček, o di produrre energia pulita sfruttandone il vorticoso moto circolare delle spoglie. Forte della sua quadrupla cucciolata, Heidi compare nei sottopancia fuchsia come Model-Mama, figura materna e benevola che mette in guardia le sue figliocce adottive dai babau dello spietato mondo della moda, riuscendo nel contempo a proporsi pure come una via di mezzo tra un preparatore atletico e un guru per la sua nidiata di pulcine bagnate.
Un CT che prepara le sue piccole fiammiferaie a brillare di luce lunare durante la temutissima challenge della settimana e valutandone la prestazione, insieme a due macchiette stereotipate del fescionbiz, al termine del famigerato livewalk in studio L’interminabile passerella conduce al cospetto del biondo Minosse spigoloso che termina ogni frase con cinque secondi di silenzio per commemorare lo share, inevitabilmente destinato a decollare di fronte agli umidi occhioni rossi di una ragazzina in preda al delirium tremens. Nel caso i giri di coda condannino la povera fanciulla ai tormenti delle Malebolge – l’amaro ritorno sui banchi di una Realschule di periferia o al reparto ortofrutta – la stessa anima dannata incespica singhiozzante sugli ultimi metri di passerella per ricevere l’abbraccio consolatorio di Heidi, glaciale guida spirituale che preferisce vedere la steadycam posare il suo occhio sauroniano sul mascara sbavato piuttosto che schiodarsi dalla sua statuaria immobilità.
Niente di originale, sia chiaro. È il classico meccanismo trito e ritrito del voyeurismo televisivo, condito da un po’ di etica del lavoro protestante, quella per cui più sudi e più meriti un posto in tribuna; quella per cui se non ce la fai è perché sei tu che non hai fatto abbastanza, quella per cui lo status sociale è un riflesso dello status bancario, e lo status bancario è un riflesso del culo che ti fai per lavorare, ergo del culo che ti fai per avvicinarti all’Empireo, ergo della tua devozione, ergo della tua integrità morale. Un substrato ideologico che probabilmente è più un sedimento semi-inconscio che una scelta consapevole; un certo darwinismo sociale di natura religiosa, le cui caste esigono che vengano tracciate linee di confine molto chiare; un po’ come in India, solo più subconscio. Guardate gli Stati Uniti e ditemi se non è la stessa cosa.[img4] E guardate che la Mitteleuropa non è molto diversa, checché ne dicano molti degli stessi autoctoni; la differenza sta nello stato sociale, che è in fondo è un po’ la foglia di fico del liberismo: un meccanismo concepito per salvarti le chiappe quando gli altri maschi alfa del sistema ti cacciano dal branco.
Al di là di queste divagazioni sulle mutazioni genetiche della meritocrazia, non ci vuole un critico televisivo per notare come GNTM sappia offrire al suo target di pubblico una capacità d‘immedesimazione davvero notevole, una scelta di marketing tarata su una certa sobrietà centroeuropea: ogni volta che mi viene da esclamare “ti prego, ieri dal fruttivendolo ho visto di meglio” mi sto solo rendendo conto che le candidate sono mediamente delle ragazze della porta accanto. Chiaramente è proprio questa la chiave del successo: invece di proporre un modello irraggiungibile (a differenza dell’edizione statunitense, con stereotipi irreali e ben marcati), GNTM lascia alla diciottenne media – potenziale concorrente di edizioni future – un ampio margine di speranza e rafforza la capacità di identificazione. Anche se negli stacchi pubblicitari si vedono le vincitrici delle scorse edizioni perdere fino all’ultimo brandello di amor proprio decantando le meraviglie di una margarina, di una lacca o di un intimo scadente prima di sprofondare per sempre nell’oblio allo scadere dei proverbiali quindici minuti di fama, la liceale o la banconista del LIDL non perdono la fiducia di poter essere il prossimo pezzo da collezione delle passerelle tedesche.
* Linguista e blogger, Gabriele Costa (noto anche come Gab) vive a Berlino. Tra le altre cose, ogni tanto guarda un po’ di Tv.
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