Il soliloquio di Michele Santoro
Anno zero, voto zero. Il ritorno di Michele Santoro al piccolo schermo ha tutto il sapore di una rappresaglia. Impulsiva, irrazionale, cieca, a volte incomprensibile, ma forse fin troppo prevedibile. Scomodare una terminologia da guerriglia può sembrare fuori luogo, e probabilmente Santoro non ha, nei fatti, alcuna volontà di ritorsione nei confronti della Rai che lo ha reintegrato. Ma il suo Anno zero è lì a far pensare al contrario: chissà se ci è o ci fa.
Di nuovo in TV dopo esserne stato cacciato, dopo essersi fatto eleggere europarlamentare, dopo aver vinto una causa di lavoro contro la Rai, dopo aver abbandonato la nuova carriera politica (nuova, almeno dal punto di vista istituzionale) per tornare alla sua passione, il piccolo schermo, Santoro sembra ancora voler dimostrare qualcosa. “Sono ancora qui”, irriducibile, incorreggibile, quello autentico di sinistra, libero. E chissà se anche questi nuovi al governo avranno il coraggio di dire qualcosa, come fece Berlusconi il Censore, al tribuno del popolo ritrovato. Una bella sfida, giocata sul terreno scivoloso dei Di.Co, cui i dietrologi più smaliziati attribuiscono la vera responsabilità del crollo al Senato del governo Prodi, naturalmente grazie all’intercessione della Chiesa.
Il tutto è preparato a puntino, con Marco Travaglio in studio, il vignettista Vauro e niente meno che un Ministro della Repubblica, il Cattolico Mastella. Una geometria che fa rabbrividire proprio i più accorti tra i difensori dei diritti civili e della causa omosessuale.
Non esiste un contraddittorio: il pubblico, disposto a semicerchio è una giuria popolare selezionatissima, che interagisce e inveisce verso gli ospiti in prima fila. L’imputato è solo, su una sedia all’estremità dello studio. Santoro è il pubblico ministero, il perno di tutto, in scena per il suo appagamento e per condurre la macchina dove vuole, senza che vada fuori rotta.
Ma non trattiene l’emozione, non riesce ad aspettare in silenzio che le argomentazioni si dispieghino. Si sente sia politico che opinionista, interrompe e grida, si indigna. Scherza sulla sua faziosità, ma la sua partigianeria crea disorientamento e schizofrenia. Il conduttore cessa di essere garante della trasmissione: diventa il polemista da contenere, ma non c’è chi possa farlo. Un soliloquio monocolore, dove la controparte, il Ministro in Studio, diviene quasi l’unico simulacro del pubblico a casa, essendo il pubblico in studio parte attiva nella celebrazione del processo.
La presunzione è quasi ingenua: una sfilata di Ragioni e Verità inconfutabili non può lasciare insensibili e incorrotte le convinzioni dell’ospite isolato, come dello spettatore. Le storie di vita mirano ad intenerirlo, le evidenze a spiazzarlo, i numeri schiaccianti ad intimidirlo. Forse Santoro crede davvero che in una sera si possano risolvere posizioni per lo più inconciliabili, ritrovando una maggioranza parlamentare, congelando il dibattito.
Peccato che Mastella si ostini a resistere, ribattere, ingegnarsi.
E anche il più accanito dei laicisti finisce per impallidire davanti al teleschermo, inveendo contro l’autolesionismo dell’operazione, in grado di glorificare persino il ministro dell’UDEUR, nel quale il pubblico si identifica quasi per necessità, [img4]mentre gli vengono mostrati i risultati di un sondaggio d’opinione, effettuato tra i telespettatori, seguaci del presentatore.
Quando poi la tensione si fa alta, l’aggressione si fa rissa e il ministro lascia la trasmissione tra i richiami, moralisti e baudiani, all’incapacità di ascolto della classe politica. È il crollo di un castello di carta. La trasmissione ha bisogno di un interlocutore che ascolti, come sequestrato, tutto quello che c’è da dirgli. Invece, rimane la sedia vuota, il mal celato rammarico contro l’effettiva inefficacia degli invitati nel pubblico.
Un conduttore sempre più solo, Santoro, come uno scolaro che ha appena cominciato l’anno, ma già si sente in tasca uno zero in condotta. Preludio di una probabile bocciatura.
A cura di Lorenzo Lipparini
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