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cultura dell'immagine e della parola

Lost – Perdersi per ritrovarsi

Alle radici di Lost (martedì, Fox, ore 21.00), nuovo fenomeno televisivo statunitense-globale, c’è la condizione di smarrimento. Isolati dal resto del mondo i ragazzi perduti devono fare i conti con loro stessi e con il loro passato.
Si conferma, questa volta con un mezzo diversissimo nelle forme e nei tempi come il telefilm, la necessità di mostrare l’uomo solo con se stesso, messo a duro confronto con le difficoltà della vita. Nella fenomenologia del reality show, la vera forma di intrattenimento è lo sguardo dello spettatore. Dalla fattoria all’isola deserta, dalla casa al ristorante, dal campo di calcio alla sala di registrazione, il vero obiettivo non è creare dei fenomeni mediatici (o da baraccone scegliete voi), bensì provocare, stuzzicare, invitare l’occhio dello spettatore a interessarsi. Un occhio che lentamente si avvicina alla storia di personaggi e alle vicende dei suoi nuovi eroi mediatici. Non servono avvicendamenti particolarmente costruiti, o personaggi abilmente zoomati. Tutto e tutti hanno il potere e la possibilità di diventare interessanti. O meglio: è sempre l’occhio a distribuire le diverse dosi di importanza.
Ecco allora che cominciamo a parlare di fenomenologia del reality, nel senso di nascita di nuovi fenomeni, che come tali, da definizione, sono destinati a scomparire. Fanno un po’ di luce, ma poi si spengono. Giusto così? Forse no.
Il mezzo televisivo corre troppo spesso il rischio di ingannare. A volte gioca sporco, a volte imbroglia e tradisce la fiducia che lo sguardo ripone nelle immagini.
I telefilm, invece, sono diversi. Negli ultimi tempi è sempre più frequente nei palinsesti la forma seriale. Finzione di finzione, ma dichiarata. Alcuni episodi, potrebbero essere chiamati addirittura microfilm. Una finzione raccontata e rappresentata come la realtà. Dichiaratamente finta. Formalmente reale.
Pensiamo a un telefilm come 24 (J. Surnow, R.Cochran, dal 2001). Ventiquattro puntate che narrano lo svolgersi di una giornata; ogni puntata dura un’ora. Nella finzione e nella nostra realtà. L’occhio vive per un’ora l’esperienza visiva più finta e reale che possa esistere. Diegesi, racconto, finzione e quant’altro combaciano con la vita dello sguardo.
Anche il genio di Alfred Hitchcock si è confrontato con una situazione simile. Nel 1948 infatti Hitchcock decise di girare il film Nodo alla gola (Rope, 1948), esaurendolo in una sola inquadratura. Il grande inganno che il regista riuscì a mettere in piedi fu un caso più unico che raro. Uno sguardo ben allenato, tuttavia, si accorgerebbe facilmente del trucco. I primissimi piani delle giacche dei protagonisti erano gli stacchi che permettevano di sostituire le bobine. Come dei luoghi di sospensione temporale, una sorta di “dietro le quinte”, uno stacco pubblicitario invisibile. Una pausa mai vista, ma presente all’incirca ogni dieci minuti. L’occhio sta a guardare la durata di un’azione e crede che sia reale.
Nei telefilm succede più o meno la stessa cosa. Non sempre la durata del racconto coincide con quella della vicenda, ma le storie parlano sempre più spesso della vita degli uomini. Che sono individui sociali. Che hanno una famiglia. Che convivono con le incertezze o le delusioni. Insomma una serie di idee sempre più coinvolgenti che si accostano alla realtà dei fatti sempre più verosimilmente.
Riscoprirsi, ritrovarsi, rinascere. Questi sono soltanto tre elementi che potreste trovare in Lost, la nuova serie della rete Abc che Fox trasmette in Italia da metà marzo. Un’avventura ma anche il nuovo viaggio che ciascuno disperso inizia a percorrere.

In Arancia Meccanica (A clockwork orange, Stanley Kubrick, 1971), Alex, nonostante la sua duplice funzione di guida (onnipotente dei Drughi, onnisciente del racconto), a un certo punto diventa un lost. Perduto. Smarrito. Rovinato. E noi con lui perdiamo ogni genere di certezza. Ma in carcere veniamo salvati, e per la prima volta conosciamo il suo vero nome: Alexander De Large. Proprio nel preciso istante in cui lo stiamo perdendo, Alex si rivela: Lui è Alessandro il Grande. Come per rassicurarci. Perdersi per ri-scopirsi.

Sono perse anche le anime calde di Lost in Translation (Sophia Coppola, 2003), immerse nell’iper-traumatico stimolo visivo made in Tokio. Spaesati e quasi appannati, Bob e Charlotte sono altrove. Gli spazi fisici/statici che abitano non sono quelli dei loro pensieri, plastici/dinamici. Il loro amore non è tradotto/consumato, ma perso/lost. Nel senso che assume altre forme, altre vedute, altre visioni. Nel senso che è traducibile.
È vissuto e sentito, ma si perde e si eleva ad altro. Si rivela altro. Probabilmente altrove e in altri tempi. Non lo sappiamo, comunque si spoglia del guscio che indossa e va altrove. Perdersi per ri-trovarsi.

La stessa cosa succede alla Sposa in Kill Bill (Quentin Tarantino, vol.1 2003, vol.2 2004).
«Tu avresti indossato il costume di Arlin Plympton – le ricorda Bill – ma tu sei nata Beatrix Kiddo, e ogni mattina al tuo risveglio saresti stata Beatrix Kiddo». Lei è una perfetta lost/butterfly. Perché muta continuamente nelle forme (killer & figlia, sposa & madre, allieva & guerriera); perché è camaleontica nell’assumere nuovi colori (il bianco, il nero, il giallo, il rosso); perché ri-sorge in ogni diversa identità (Beatrix Kiddo, Arlin Plymton, Bimba, the Bride, Black Mamba, Paula Schultz). E’ una lost perché viene privata di tutto. Un seme divenuto frutto/vendetta, forza della sua ri-nascita.

Nell’oblio dello smarrimento l’uomo si schianta con il proprio passato (evocando fantasmi), guarda al futuro (con sospetto), e (forse) vive il presente. Chi perde, ha perso, ma chi si perde/smarrisce, non ha (ancora) perso. Non è (ancora) uno sconfitto. E’ nel mezzo (del cammin). La sua momentanea perdizione è la chiave che apre le porte di una nuova dimensione, atemporale e aspaziale. Non è più una questione statica, il tutto assume contorni plastici, indefinibili. Scatta inevitabilmente l’illusione ottica che contamina lo sguardo: l’uomo presume di essere fermo/bloccato/costretto, ma è in perenne movimento. Inizia un nuovo cammino, ma non cancella il passato. Le sue radici, la sua storia si traducono in strumento. Un nuovo mezzo. Un motore che proietta altrove, per rivelare altro. Come se “il perdersi” diventasse una patologia causata da un essere virulento chiamato “lost” che contamina l’uomo e lo proietta in altri mondi. Proprio come accade nel mondo di Lost.
[img4]Ambientata su un’isola deserta, la serie riflette le vicende di un gruppo di persone sopravvissute a un disastro aereo. La surreale ma avvincente avventura/sciagura, creata dalla mente di J. J. Abrams (Alias) e Damon Lindelof (Crossing Jordan), ha tutti i presupposti per imitare un maestoso reality show a puntate, ma si evolve in qualcosa di meno reality e più show. L’asso nella manica non sono tanto gli attori bellocci – tra i tanti, Matthew Fox (Party of Five), Evangeline Lilly, Dominic Monaghan (Il Signore degli Anelli) – quanto la loro storia, il loro passato.
Con curiosità viviamo il loro presente, guardiamo nel loro passato e profetizziamo il loro futuro…
La struttura del telefilm prevede che ogni puntata abbia come protagonista la storia di uno dei personaggi. Qual’è il suo passato? Quali sono i suoi segreti? L’uso sistematico del flashback ci introduce nella loro esistenza e mentre l’azione è continuamente spezzata da questa intrusione, lo sguardo si disorienta. Non conosce i “dove” e i “quando”, conosce solo i “perché”. Infatti, azzerate tutte le convinzioni, lo sguardo compie un’azione che va al di là del conoscere: osserva ma al tempo stesso costruisce, assembla dei pezzi. Traduce quindi dei messaggi che poco per volta gli vengono lanciati. Oppure affronta le insidie della giungla, si scontra con le paranoie dell’uomo, si specchia in incubi premonitori, o addirittura incontra misteriose creature.
Essere lost, ovvero essere in cerca di qualcosa: che può assumere le sembianze di un riscatto, di una conferma, di una vendetta, o più semplicemente di altro. Persi nelle loro storie, nei loro segreti e nei misteri che l’isola nasconde, i nostri eroi dovranno unire le rispettive vite/forze, diventando altro. Come il nostro occhio, osservatore affamato di immagini e indizi. Fermo ma in movimento.

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