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Wrestling: tre motivi per amare SmackDown!


Basta poco per entrare nel tunnel. E’ sufficiente che una domenica sera, mentre si aspetta che bolla l’acqua per la pasta, si decida di guardare un po’ di televisione. Il dito scivola casualmente sul tasto numero sei, e sullo schermo compare un ometto muscoloso con una buffa maschera da supereroe. La prima molla a scattare è quella della curiosità: perché quell’ometto (che presto scopriremo chiamarsi Rey Mysterio) indossa una maschera da supereroe? Che cosa vuole fare?
Rey sta al centro di un ring, davanti a lui c’è un gigante di grasso e muscoli, tatuato come un mappamondo. Dopo un istante di pausa, un’azione frenetica, mozzafiato: l’ometto mascherato sale sulle corde, schizza in aria come se non ci fosse la gravità, compie un’evoluzione, si aggrappa con le caviglie al collo del gigante, flette i muscoli, poi si avvita lanciando l’avversario dalla parte opposta del ring. La sensazione che proviamo è quella del sublime già cantato dai poeti romantici.

Siamo entrati nel tunnel: ci siamo innamorati del wrestling.
Il problema è che molti non ci capiranno. La vita del wrestlemaniaco, purtroppo, non è solo un carosello di audaci supplex e salti dalla terza corda. E’ una sequela di incomprensioni, di sterili confronti con quei materialisti da quattro soldi che non fanno che ripetere: «Ma dai, come fai a guardarlo? Tanto non è mica vero che si picchiano».
Ebbene, finora noi appassionati abbiamo taciuto di fronte a simili provocazioni, convinti (da bravi mistici quali siamo) che solo l’ineffabilità rende il giusto tributo alle manifestazioni spirituali. Ma alla lunga le provocazioni sfibrano, e può capitare che il giusto senta insopprimibile il bisogno di scendere sul piano pratico per porre fine alla persecuzione.

Eccoci quindi a questo articolo: tre spiegazioni assolutamente ragionevoli di perché SmackDown! sia diventato un programma – feticcio per il popolo del wrestling.

La prima spiegazione è di matrice assolutamente televisiva.
Il wrestling è la neotelevisione portata fino ai suoi limiti. Il format di SmackDown! presenta infatti tutti gli stilemi che la critica riconosce come neotelevisivi.
Vi è innanzitutto un luogo delimitato a livello spaziale (l’arena) presidiato dalle telecamere che hanno il compito di catturare ogni azione che vi venga compiuta, come nei reality show che vanno tanto di moda.
Vi è l’imprevisto, lo scarto dalla norma. Ma è perfettamente gestito linguisticamente: è reso trasparente, viene mostrato nel suo svolgersi senza che ne venga perso un solo secondo. Viene proposto nell’inquadratura e riproposto nel replay. E’ un imprevisto intelleggibile.
Vi è una grammatica dei sentimenti degna della miglior soap opera, come già ci spiegava Giacomo Valenti in una intervista di qualche mese fa: quello che veramente SmackDown! mette in scena sono le emozioni, non la dimensione prettamente fisica della lotta.
Vi è poi un commento che si rifà alle migliori tendenze dell’infotainment: la coppia Recalcati – Valenti ai microfoni ripropone la ormai classica alternanza tra visione tecnica e visione patemica dell’evento, che tutte le trasmissioni sportive hanno già fatto propria.
E per finire, SmackDown! è un meccanismo portentoso di creazione di personaggi. Si tratta di personaggi trash, non c’è dubbio, ma non è forse l’attrazione per il trash che ci spinge a mandare i nostri vip su un isola deserta a patire la fame o in una fazenda messicana a superare improbabili prove di coraggio? A conti fatti non si può non ammettere che rispetto ai format in voga di questi tempi SmackDown! è un esempio di buon gusto.

Da qui il passo è breve per giungere alla seconda spiegazione ragionevole del nostro amore per il wrestling, quella estetica: SmackDown! è una [img4] gioia per gli occhi, è bellezza. Non a caso uno dei suoi tormentoni è: «Questi sono grandissimi atleti».

La terza spiegazione nasce invece da una considerazione di tipo sociologico.
Il wrestling fa proprio della smaccata inverosimiglianza la propria forza.
I lottatori si prendono a pugni, si lanciano fuori dal ring, si sfasciano sedie sulla schiena. Eppure, come i protagonisti di un videogioco, nella puntata seguente sono di nuovo in pista per un altro incontro.
I rancori non sono reali. Vengono presto accantonati in vista di un match di coppia.
Il punto è questo: SmackDown! è l’allegoria di un conflitto senza vera violenza.
E se guardiamo la situazione attuale della nostra quotidianità, in cui a prescindere dall’esistenza dichiarata o meno di conflitti a farla da padrone è la violenza, allora il wrestling può quasi apparirci come un’utopia festosa.

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