Come una profezia
Tim Judah, fin dal suo arrivo a Baghdad il 10 marzo 2003, si muove in una città nella quale vige un clima di sospensione e attesa, che tira un respiro di sollievo. Dieci giorni dopo iniziano a cadere le tanto annunciate bombe alleate. I primi contatti con i locali, Judah li ha nella sua stanza d’albergo, con il sottofondo musicale del gruppo inglese femminile delle Sugababes alle quali è affidato il compito di confondere l’onnipresente e onnipotente polizia segreta irachena. Il giornalista scende poi nelle strade per ascoltare il popolo di Baghdad, gente comune che spera in un futuro migliore, che rimane fedelmente aggrappata al regime o che nega, contro ogni evidenza, l’avanzata degli americani verso la capitale o, ancora, che rifiuta di rilasciare un commento per la paura del “terrore”, o che, infine, piange i propri cari uccisi nelle prigioni di Saddam o durante le due grandi guerre dell’Iraq.
Lo stile di Judah è sintetico e ricco allo stesso tempo e permette di entrare davvero nelle atmosfere di cui l’autore è stato testimone. Il gran pregio della sua narrazione è la volontà di offrire uno scorcio di guerra che, privo dei filtri massmediatici, permetta al lettore di organizzare le proprie idee e formulare valutazioni personali. Il suo racconto, improntato su un ottimo stile giornalistico, consente di entrare in una vicenda attuale e drammatica come quella della guerra in Iraq e di scoprire cosa ha significato per la popolazione, vera protagonista e vittima del conflitto bellico, la destituzione di un regime come quello di Saddam e quale peso abbia ora la prospettiva di un futuro forse anche più incerto e problematico.
L’autore offre una visione parziale di quanto è accaduto nel paese. Non vuole dare una lezione di realtà, di politica o di storia contemporanea. Ma nonostante questo, non possiamo non scorgere fra le sue righe, visti anche gli svolgimenti successivi della guerra, una profezia:
«Nei sovraffollati quartieri sciiti di Baghdad, che fino a poche settimane fa si chiamavano Saddam City, oggi non si vede più una sola immagine del rais. In compenso il ritratto di al-Sadr è onnipresente. Gli imam radicali stanno reclutando e armando milizie religiose… Se gli Stati Uniti perderanno questa sfida è piuttosto chiaro chi la vincerà, e non solo in termini organizzativi. Saddam City è letteralmente cosparsa di graffiti che ripetono, all’unisono, la stessa cosa: “Benvenuti ad al-Sadr City”.»
Era già tutto scritto, in fondo: bastava leggere i giornali.
Tim Judah, nasce in Inghilterra nel 1962 e vive a Londra. Collabora come freelance con “The Economist” e “The Times” e frutto di questa collaborazione sono due pubblicazioni: The Serbs (1997) e Kosovo (2000). Saddam e le Sugababes raccoglie invece tre reportage apparsi sulla “New York Review of Books” e un saggio inedito.
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