Un’ultima notte di libertà
Probabilmente lo stesso David Benioff non avrebbe potuto desiderare interprete migliore per la parte di Montgomery: Edward Norton riesce ad esprimere pienamente il senso di vuoto e frustrazione del ricco e giovane pusher bianco che improvvisamente si trova privato della sua vita e della sua libertà. Con quello sguardo triste e profondo e con quella lentezza di movimenti, in cui ogni gesto pare provenga da una sofferta riflessione, rende tangibile il tormento di non sapere chi lo ha tradito e l’amarezza del dover lasciare tutto quello che aveva ottenuto.
Senza contare che Norton è estremamente convincente anche durante tutti i flash-back (di cui la storia è ricca) che lo mostrano al pieno della sua “potenza” e del suo sex appeal.
(Del resto basta pensare ai vari ruoli che ha interpretato, ad esempio in Fight Club e in American History X, per ricordarsi quanto sia camaleontico e adattabile ad ogni parte).
Durante la sua ultima notte di libertà Monty prenderà atto di tutto ciò che ha fatto in passato, cercherà di recuperare il suo rapporto col padre, saluterà i suoi amici e proverà a parlare con loro in maniera sincera, ascolterà i banali consigli di Uncle Blue (il boss mafioso che seguiva il suo giro di droga) riguardo il carcere, prenderà congedo dal suo cane, dalla sua città e da tutto ciò che gli apparteneva e addosserà la colpa di quello che gli è successo a tutte le persone che gli stanno vicino, manifestando sentimenti che non aveva mai espresso prima, fino a che non si renderà conto di essere lui stesso la causa della propria condizione, prendendo finalmente piena coscienza di sé.
Un amico gli dice, sottolineando come ognuno sia sempre responsabile, nel bene e nel male, solo di se stesso: “Non posso aiutarti, come tu non puoi aiutare me. Nessuno ci può aiutare e noi non possiamo aiutare nessuno.”
Nonostante il sottofondo di malinconia e sofferta accettazione questo film non perde tempo a piangersi addosso e anche se la storia si svolge nell’arco di 24 ore il ritmo è acceso, grazie ai flash back e soprattutto alla capacità di gestire storie parallele.
Anzi, queste 24 ore sembrano svolgersi sin troppo velocemente: la festa che gli è stata organizzata dagli amici sembra appena cominciata che già Monty vede l’alba sorgere all’orizzonte.
Per quanto anche il libro sia scorrevole e di piacevole lettura c’è da dire che qui il racconto è leggermente più lento, ma ciò favorisce un maggiore studio delle psicologie dei vari personaggi. Questo approfondimento non risulta pesante, anzi favorisce una maggior comprensione della situazione e un’interessante analisi caratteriale di tutti i personaggi, non accentrandosi, come invece tende a fare il film, esclusivamente sulla figura di Montgomery.
Questo primo romanzo di David Benioff è sicuramente un ottimo esordio. Il libro è ben articolato, la storia accattivante e lo stile mordente e incisivo. Unico lato negativo è il suo insistere molto su quell’idea per cui il carcere è fondamentalmente violenza fisica, psicologica e sessuale. Un luogo di tortura da cui è difficile uscire vivi. Non so se davvero in America le prigioni siano tutte così come film e libri le descrivono, ma in Italia la situazione è certamente diversa, quindi questo terrore del protagonista è comprensibile, ma non condivisibile e diventa una stonatura, un allontanamento dalla (nostra) realtà.
E’ un vero peccato perché questa discordanza crea una spaccatura nel rapporto tra il protagonista e il lettore (che non si riconosce più nei sentimenti di Montgomery), sminuisce il trauma di dover trascorrere sette anni in prigione e va a minare lo stretto legame che il lettore viene a subito a creare con Montgomery.
Forse Benioff ha cercato di sfruttare delle tematiche che (si sa) hanno sempre il loro effetto, senza rendersi conto che sarebbe stato più interessante analizzare meglio la sofferenza della perdita di libertà, del dover mettere la propria vita in stand-by per sette anni, piuttosto che concentrarsi così tanto su sangue e brutalità.
Nel film, oltre a Edward Norton, anche gli altri interpreti sono adatti e convincenti e sono ottimi sia il montaggio sia il commento musicale. Ma questo non era certo sufficiente a farne un film culto. La bravura di Spike Lee consiste nel sembrare fondamentalmente fedele alla trama del libro senza concedersi grandi omissioni né aggiunte, mentre in realtà riscrive tutta la storia: quello che era [img4]semplicemente il racconto della vita di un uomo diventa simbolicamente il racconto della vita di tutta una città. Montgomery rappresenta New York. La New York che è stata colpita a tradimento (vedi i fasci di luce blu al posto delle Twin Towers), la New York che nasconde sotto una bella facciata malavita, droga e criminalità (perché Monty, nonostante ci piaccia, è uno spacciatore di cocaina), la New York che deve guardarsi in faccia allo specchio per poter ricominciare e ricostruirsi. Così gli amici di Montgomery diventano gli occhi di chi guarda la città, presentandone i diversi punti di vista e sono mille i commenti, a volte contraddittori, che fanno su Montgomery e la sua vita, a volte amandolo o invidiandolo, altre criticandolo aspramente, ma restando sempre e comunque inscindibilmente legati a lui.
La 25ma ora (The 25th Hour), romanzo di David Benioff, 2000, ed. Neri Pozza Tascabili
La 25ma ora (The 25th Hour), regia di Spike Lee, USA, 2002
A cura di Silvia Poli
la sottile linea rossa ::