Naufrago del Progresso
La Milano del boom economico, primi anni sessanta; la città dei cumenda, delle segretarie, degli impiegati. La città dei nostri “grattacieli”, che al cospetto di quelli veri, quelli newyorchesi, fanno la figura del capanno per gli attrezzi. La Milano che “accoglie” gli immigrati dal Sud, ascesi a questo porto di nebbie a cercare un lavoro – “A Milàn gh’è ‘l pàn!”, diceva la nonna.
Accoglie: purchè lavorino, ‘sti terùn! A Milano, città d’industrie, industriette, imprese, aziende, fabbriche, fabbrichette, a Milano i dané girano: ma voglia di sgobbare, ci vuole, mica star tutto il meriggio a digerire il pranzo, come quei che stan giù da basso: anzi, a Milano non si perde tempo, non si pranza e tanti saluti.
In questa cordiale città c’è un palazzo; una torre: Il Torracchione. Sede di un’azienda proprietaria di miniera a Guastalla, nell’Emilia.
Un uomo osserva il torracchio; ha certe urbanistiche idee che prevedono un modico se pur efficace impiego del tritolo.
Nove mesi avanti, gli uomini che in quella miniera emiliana lavoravano fanno sapere alla dirigenza che giù nelle gallerie si scava a fondo cieco. C’è il rischio, se non viene installato immediatamente un adeguato sistema di ventilazione, che avvenga un esplosione di grisù, la terribile miscela di aria e gas flagello dei minatori.
La direzione ignora: poche storie, e lavorare! (a Milano i bambini imparano a dirlo prima di “mamma”).
Un mattino la miniera esplode.
Quarantatrè non risalgono.
Luciano Bianchi è il protagonista del film di Carlo Lizzani: “La vita agra”, tratto nel 1964 dall’omonimo romanzo di Luciano Bianciardi apparso due anni prima. Per il ruolo di Bianchi viene scelto Ugo Tognazzi, in uno dei suoi primi ruoli drammatici dopo gli esordi d’avanspettacolo. Se pure di drammaticità si può parlare, quando invece è l’amarezza a impregnare ogni pagina del libro: e a scandire ogni fotogramma del film.
Luciano Bianchi è arrivato a Milano con un modesto scopo: far saltare il Torracchione. Egli lavorava presso la miniera in qualità di addetto culturale: i minatori morti erano anche suoi compagni. Vittime della logica del profitto. La miniera non produceva abbastanza: la chiusura a seguito della tragedia è persino convenuta ai suoi proprietari. Le poche lire di risarcimento dovute ai parenti delle vittime- miserabile materializzazione di quanto poco valga per alcuni la vita di un uomo- sono comunque una spesa di poco conto per l’azienda: un imprevisto – appunto – da mettere in conto.
L’amaro risentimento presente nel romanzo di Bianciardi verso le miserie e le aberrazioni insite alla società capitalistica, verso le ingiustizie, le assursità del vivere moderno sono riportate, anche se in maniera più soffusa, anche nel film di Lizzani. L’alienazione, il senso di prigionia che la città ispira all’intellettuale, alla persona sensibile, la cognizione del flagrante errore in cui si trova una società che lascia morire un ubriaco in mezzo a un marciapiede solo per voler evitare “grane”, tutto questo sconforto, questo sapore che resta in bocca a chi non corre, a chi non scavalca, a chi vuole guardare, tutto ciò resta nel Luciano Bianchi che ha gli occhi di Ugo Tognazzi.
Se la carica eversiva e dissacrante del romanzo è per forza di cose moderata nel film, esso tuttavia stupisce per una certa audacia nei temi che decide di non trascurare: argomenti come le relazioni extraconiugali, la gravidanza, il sesso appaioni sotto una luce quanto meno insospettata, se si pensa a quale Italia, profondamente moralista e retrograda, imperava ancora in quegli anni, in cui nominare in televisione un “membro” del parlamento era considerato inopportuno. L’opera di Lizzani ci presenta così un Bianchi un po’ più “borghese” del suo originario bianciardiano, ma non per questo meno risentito e consapevole.
Dunque il traffico, la poca femminilità delle segretarie, l’invadenza della pubblicità, l’assenza di umanità di una vita condotta seguendo il lavore quale scopo e fulcro dell’esistenza, tutto ciò è attraversato da Luciano bianchi con la coscienza che – come il protagonista del romanzo, e come nel 1949 scriveva Guglielmo Petroni – “Il mondo è una prigione”.
E ogni fuga è destinata al fallimento. Nel romanzo è la necessità di tirare avanti ad ingabbiare il protagonista: egli lavora come traduttore, e il magro stipendio che gli permette di vivere (vivere? Di pura biologica sopravvivenza si tratta; non campare: scampare.) è frutto di fatica continua e logorante, tale da non permettere vacanze, distrazioni, perfino malattie. Il lavoro intellettuale si trova a essere ancora più limitante e asservente che il lavoro d’impiegato, sterile principe dello sconfinato mondo terziario. Non resta che l’oblio, il fare un po’ di corte a quella Signora: “Poi il sonno è già arrivato e per sei ore io non ci sono più.”
Bianchi/Tognazzi, al contrario, più brillantemente, si fa assumere dalla ditta che dovrebbe minare, e ne diventa ottimo elemento, pubblicitario di successo. Il gorgo l’ha risucchiato in maniera differente: ma non per questo il fallimento è meno cocente.
Sorseggiando un drink con il presidente dell’azienda, lo stesso che con il suo rifiuto aveva condannato quei quarantatrè della miniera, e osservando nella sera le luci del Torracchione, Bianchi/Tognazzi ammette:
- E pensare che quando sono venuto qui la prima volta volevo farlo esplodere, quel palazzo.
- Magari l’avesse fatto! E’ assicurato per il doppio del suo valore.
La vita agra, romanzo di Luciano Bianciardi, 1962, Bompiani editore
La vita agra, film di Carlo Lizzani, 1964
A cura di Mario Bonaldi
la sottile linea rossa ::