Incontro con Samuel Maoz
Il regista vincitore del Leone d’Oro per Lebanon ci racconta la difficile gestazione e il successivo lavoro che è stato necessario per questo film.
Il 6 giugno 1982, alle 6:15 del mattino, uccisi un uomo per la prima volta nella mia vita. Non lo feci per scelta, né perché mi era stato ordinato. Fu un’istintiva reazione di autodifesa, un gesto privo di motivazioni emotive o intellettuali, dettato solo dal primordiale istinto di sopravvivenza che non prende in considerazione fattori umani, un istinto che si impone in una persona che si trova di fronte a una tangibile minaccia di morte. Il 6 giugno 1982 avevo 20 anni.
Venticinque anni dopo quella infelice mattina che inaugurò la prima Guerra del Libano, ho scritto la sceneggiatura del film Lebanon. Mi ero già cimentato prima con il contenuto, ma ogni volta che iniziavo a scrivere, l’odore della carne umana carbonizzata riaffiorava nelle mie narici e mi impediva di continuare. Sapevo che quell’odore evocava scene indistinte che avevo sepolto nel profondo della mia mente. Dopo anni di trauma passivo e di violenti attacchi di rabbia, avevo imparato a identificare quel momento sinistro e a sfuggirvi in tempo. Meglio vivere nella negazione che non vivere affatto.
Il 2006 fu un anno particolarmente difficile. Erano passati cinque anni dal mio ultimo progetto e mi sentivo svuotato. Ogni tanto producevo uno spot pubblicitario o un breve filmato promozionale, ma a parte questo, il nulla. Ancora una volta, subivo la pressione economica, la mia passività e un’esasperante mancanza di responsabilità. Una volta qualcuno mi chiese: “Come va con il trauma post-bellico? Ti capita di avere degli incubi quando ti torna in mente la guerra?” Magari fosse così semplice, pensai tra me e me.
Quando senti di non aver nulla da perdere, sei disposto a correre dei rischi. Era così che mi sentivo all’inizio del 2007, quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di Lebanon. Avevo toccato il fondo e avevo deciso di raschiarlo. Questa volta, pur volendo fuggire dall’odore che come al solito si manifestò all’inizio, gli permisi di condurmi verso le scene indistinte, le misi a fuoco, mi ci immersi e le affrontai. All’improvviso provai conforto e uno strano senso di euforia. Non ero ancora del tutto perduto! Avevo ancora uno spirito battagliero! Andai a letto presto e il mattino seguente mi alzai e mi misi a scrivere.
Fui prudente, non affrontai l’argomento in modo diretto, ma girandoci attorno, scrivendo un’introduzione, sondando qua e là… Aspettai l’odore, ma non arrivò. Mi ritrovai a esercitare degli sforzi graduali per recuperarlo nella mia memoria, ma non c’era più. Anche le scene erano scomparse. Restava solo una vaga progressione di eventi difficili, spaventosi e particolarmente lontani. Dopo circa una settimana, mi resi conto di essere diventato emotivamente distaccato. Il ragazzo dei miei ricordi non ero più io. Provavo dolore per lui, ma era un dolore sordo, il dolore di uno sceneggiatore affezionato a un personaggio di cui sta scrivendo. Non mi importava capire se ero guarito o se stavo semplicemente battendo il record mondiale della negazione. Ero sommerso dall’adrenalina e mi sentivo come un missile tremante sulla rampa di lancio un istante prima del decollo. Avevo steso la prima bozza della sceneggiatura nell’arco di tre settimane.
Questa breve esperienza di scrittura è stata come un elettroshock per me, una scossa che mi ha risvegliato da una lunga ibernazione e ha resettato tutti i miei interruttori. Sangue nuovo è fluito nelle mie vene. Ero concentrato. Ero anche dispiaciuto per il tempo che avevo perduto, ma non ho lasciato che questo mi turbasse. Mi sono interamente dedicato al mio progetto e lui in cambio mi ha riabilitato – un anno di scambi reciproci in cui entrambe le parti sono emerse a testa alta! Uno splendido accordo di lavoro di cui sono fiero ancora oggi, perché il frutto che ne ho ricavato è me stesso.
Abbiamo iniziato a girare le complesse scene di guerra: fiamme, sangue, spari, esplosioni. Volevo accelerare da zero a cento per inondare la troupe con la mia adrenalina! Tutto procedeva secondo i piani. Il primo giorno di riprese ero di ottimo umore e la fiducia nelle mie capacità abbondava. La sola cosa che mi turbava era un dolore acuto nel piede sinistro. Alla fine del secondo giorno il piede si era gonfiato. Ricordo che dissi a me stesso che dovevo essere fuori forma dopo tanti anni sprecati. Ma alla fine del terzo giorno, riuscivo a stento a camminare. Mi trascinavo zoppicando da un posto all’altro, con il dolore che mi trafiggeva la carne. Venne sul set un dottore e mi disse che avevo un’infezione molto aggressiva. Presi una doppia dose di potenti antibiotici e mi addormentai, ancora dolorante, ma completamente stordito.
Venerdì: dodici ore di sonno ininterrotto. Il dolore era scomparso. Diedi un’occhiata al mio piede e vidi che sanguinava leggermente, ma che non era più gonfio. Accanto ad esso c’erano cinque piccoli frammenti di shrapnel, l’ultima testimonianza della Guerra del Libano che il mio corpo aveva improvvisamente deciso di espellere dopo 24 anni. Un’appropriata conclusione al mio intenzionale processo di auto guarigione. Gettai le schegge di metallo nella spazzatura e mi sedetti a fare un’abbondante colazione…
Ho scritto Lebanon completamente di pancia. Nessuna mediazione intellettuale ha guidato il mio percorso. Il mio ricordo degli eventi stessi era diventato confuso e sfumato. Non mi sono preoccupato delle convenzioni della scrittura, come introduzioni, ambientazioni dei capitoli o struttura drammatica. Quello che rimaneva vivido e doloroso era la mia memoria emotiva. Ho scritto quello che ho sentito.
Volevo parlare delle ferite emotive, raccontare la storia di un’anima massacrata, una storia che non si potesse individuare nel corpo della trama, ma che scaturisse dalla sua interiorità più profonda. Come diavolo sarei riuscito a fare tutto questo in un film? Mi resi conto che dovevo fare a pezzi alcuni principi basilari e piegare alcuni rigidi impianti cinematografici, creando un’esperienza globale piuttosto che costruendo una trama.
La decisione di realizzare un film esperienziale ha dato origine alla concezione cinematografica. Il mio principio di base esigeva la presentazione di un punto di vista personale e soggettivo. Il pubblico non avrebbe assistito allo svolgimento della trama, ma l’avrebbe vissuta insieme agli attori. Gli spettatori non avrebbero avuto informazioni supplementari, ma sarebbero rimasti bloccati dentro al carro armato insieme agli attori, con la loro stessa visione limitata della guerra e ascoltandola solo come la ascoltavano loro. Avremmo cercato di fare in modo che potessero anche sentirne l’odore e il sapore, usando le immagini e la colonna sonora non solo a scopo narrativo, ma anche per comunicare un’esperienza. Mi sono reso conto che per arrivare a una comprensione emotiva completa, dovevo creare un’esperienza totale.
Quando fummo selezionati per partecipare al Cinemart di Rotterdam, incontrai Michel Reilhac di ARTE France, che mi chiese come pensavo di riuscire a fare interiorizzare un’esperienza così traumatica ad un attore. Questa domanda, apparentemente semplice, fu un duro colpo per me. Dopo tutto, chi meglio di me si rendeva conto e sentiva che non ci stavamo semplicemente misurando con una “esperienza difficile” nel significato convenzionale del termine? Come avrei potuto prendere un giovane attore di Tel Aviv e riuscire a fargli introiettare un trauma così estremo? Mi resi conto che dovevo aderire al principio esperienziale. L’attore avrebbe compreso e introiettato solo quello che sarebbe riuscito a sentire.
Iniziai dalle cose basilari: invece di spiegare all’attore che dentro al carro armato fa caldo e si soffoca, lo rinchiusi in un container buio e torrido. Invece di descrivergli il panico estremo che si scatena quando un carro viene colpito da tutte le direzioni, percossi le pareti del container con delle sbarre di ferro. Rimase a bollire lì dentro per ore, nell’estenuante attesa del colpo seguente, gli spari dell’artiglieria! Una pioggia di razzi! E poi ancora lunghi minuti di snervante quiete. Quando uscì, sudato ed esausto, non sentimmo il bisogno di parlare. Le parole avrebbero solo rovinato l’esperienza.
Dovevamo girare due tipi di scene: le scene all’interno del carro armato e le scene di battaglia all’esterno. Le scene nel carro armato sono state girate in studio e quelle di combattimento in due location: una piantagione di banane e una zona industriale abbandonata. Decisi di iniziare le riprese filmando le scene del combattimento, una battaglia che Shmulik, l’artigliere, vede attraverso il reticolo del suo congegno di mira. Ho fatto questa scelta perché un carro armato non produce alcun effetto sul corso di una guerra, ma reagisce ai suoi imprevedibili capricci. Dovevamo filmare l’incidente mentre si produceva, prima che seguisse una reazione. Il carro armato era in realtà un enorme trattore. I paracadutisti facevano parte di un’unità compatta che era stata smobilitata tre mesi prima. La location avrebbe avuto l’aspetto di un’area urbana bombardata. Il fumo nero sullo sfondo l’avrebbe trasformata in un campo di battaglia. Trascorremmo otto giorni avvolti in una calda nube di sangue e fuoco, vivendo intense privazioni fisiche, con la troupe in pieno delirio. Abbiamo girato le scene in esterni ambientate in Libano senza lasciare Tel Aviv.
Per rappresentare l’interno del carro armato abbiamo costruito un set. L’aspetto esterno era quello di un mostruoso insetto gigante come quelli dei film horror alla vecchia maniera ed era collocato nel centro del teatro di posa. Piazzai il mio monitor di fronte ad esso. Ci guardammo l’un l’altro in silenzio e in modo teso e io mi sentivo come Clint Eastwood prima della fatidica resa dei conti. In questo film ogni ripresa aveva bisogno in media di 4 o 5 membri della troupe: un operatore, un assistente operatore, un fonico, un microfonista e un macchinista. Per una ripresa del carro armato ne servivano molti di più :quattro per scuotere l’aggeggio, due per girare la torretta, uno per spargere il fumo, uno per far gocciolare i liquidi, uno per far lampeggiare le luci… [img4]Ben presto ci siamo trasformati in un complesso jazz perfettamente sincronizzato e in grado di stabilire un dialogo costante tra i vari componenti.
L’ultimo giorno dovevamo girare una scena particolarmente complicata. Tutta la troupe era coinvolta e l’attore era l’unico sul set che aveva le mani libere per dare i ciak.
Ma i momenti più intensi e toccanti sono stati quelli in cui gli attori smettevano di recitare, io smettevo di dirigere, il set era avvolto in un silenzio sacrale e tutti fissavano i monitor. Per osservare un’anima che veniva filmata…
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