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Intervista a Sean Penn

Il quarantasettenne attore e regista californiano ci racconta il suo ultimo film, Into the Wild – Nelle terre selvagge, drammatica storia di un uomo alla ricerca della propria identità.

Come ha deciso di fare un film sul testo di Jon Krakauer?

L’ho letto dalla prima parola all’ultima d’un fiato, due volte, prima di andare a letto. Poi mi sono alzato, il giorno dopo, non ricordo che ora fosse, e mi sono messo subito al lavoro per cercare di ottennerne i diritti. Mi sembrava una storia indimenticabile e profondamente cinematografica, sia per i personaggi che per le ambientazioni, in tutti i sensi. Ha toccato, in me, le stesse corde che credo abbia toccato in quasi tutte le persone che lo hanno letto. Poi ci sono stati molti problemi produttivi, ma quella era una storia nata per diventare un film e ho sempre pensato che, in un modo o nell’altro, quel film si sarebbe fatto. Poi un bel giorno, all’improvviso, mi hanno chiamato e mi hanno detto di essere pronti a fare il film. Onestamente, non so perché abbiamo cambiato idea, ma è andata così.

Come ha iniziato quindi il lavoro alla sceneggiatura, a così tanti anni dall’idea iniziale?

Quando mi sono seduto a scrivere la prima stesura erano passati dieci anni da quando avevo letto il libro, e non l’ho neanche riletto. Dopo averla scritta, ho letto il libro un’altra volta e ho scoperto che Jon aveva fatto un lavoro molto accurato, perché c’era tutto. Dopodiché, c’è voluta un’ultima rilettura, per individuare meglio la direzione in cui procedere. Prima della seconda stesura, ho voluto ripercorrere le tappe del viaggio di Chris, incontrando le persone che aveva conosciuto e che arricchivano la storia in vario modo. A quel punto, ho cominciato anche a comprimere la storia, per contenerla in tempi compatibili con la narrazione cinematografica.

Come ha scelto Emile Hirsch per il ruolo da protagonista?

Sapevo che era in grado di interpretare il ruolo, ma il punto era se avrebbe saputo interpretarlo per otto mesi e nelle circostanze più difficili, e se sarebbe stato disposto a trasformarsi da ragazzo in uomo durante le riprese, e sullo schermo. Ho cominciato a conoscerlo meglio, e a sentirmi sempre più sicuro della mia scelta, anche se qualche dubbio mi restava. Fino a che ci siamo detti “D’accordo, facciamolo!”, e lui è partito in quarta, pieno di entusiasmo. C’è qualcosa di elettrico in lui, e nei suoi occhi c’è anche molto di Chris. Emile ha dato prova di una immensa disciplina. Un ragazzo come lui, appena diventato abbastanza grande da bersi una birra al bar e uscire a divertirsi con le ragazze, è stato capace di rinunciare a tutt’e due queste cose per otto mesi filati. L’ho visto crescere sotto i mei occhi.

Un ruolo importante nel film è anche occupato dalla fotografia di Eric Gautier…

Nei Diari della motocicletta mi era sembrato di vedere le atmosfere che avrei voluto per il mio film, anche se quello era un film molto più piccolo. Così, ne ho parlato con Walter Salles, che conosco e rispetto molto, e lui è partito in quarta cantandomi le lodi di Eric, ripetendomi quanto fosse fantastico, un vero artista. E sentirmi dire queste cose da un regista come Salles è stato importante. Poi ho incontrato Eric, e ci siamo messi a parlare di tante cose, gli obiettivi che volevo usare per ottenere diversi effetti emotivi, l’importanza che dò alla teoria (non molta), quanto mi piace usare inquadrature dalla vita in su, la mia idea di lavorare soprattutto con la luce naturale. Insomma, abbiamo parlato a lungo, e poi ci siamo messi al lavoro. Mi sono sentito molto fortunato, perchè era proprio la persona che cercavo, e d’ora in poi voglio fare con lui tutti i miei film. E’ davvero unico. Ho lavorato con ottimi direttori della fotografia, ma non mi era mai capitato di ottenere l’effetto che avevo chiesto e scoprire al tempo stesso che quel lavoro era stato ugualmente gratificante per entrambi.

Com’è stato invece il lavoro al montaggio con Jay Cassidy, con cui ha già fatto cinque film?

Per prima cosa, di solito, gli faccio vedere tutto quello che non mi piace e che vorrei non vedere mai più. Dopodiché, mentre io mi prendo un paio di settimane di riposo, lui mette insieme una sorta di lungo assemblaggio basandosi sulla sceneggiatura e sui miei appunti. Poi, insieme, facciamo quella che chiamiamo la terza stesura del film, che consiste in questo: facciamo finta di essere due sceneggiatori, e fondamentalmente restiamo chiusi insieme dentro una stanza per mesi, giorno dopo giorno, a volte lavorando anche tutta la notte, senza uscire neanche per mangiare, facendoci portare qualcosa quando abbiamo fame, e andando avanti e indietro, scambiandoci idee e domande su cosa funziona meglio emotivamente, finché non abbiamo finito. Alla fine, il film era praticamente identico a quello che avevo avuto in testa dieci anni prima.

Alle musiche invece hanno collaborato artisti come Eddie Vedder, Michael Brook e Kaki King…
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Man mano che andavamo avanti con le riprese, ho cominciato a sentire la voce di Eddie Vedder come l’anima di Chris McCandless. Nel frattempo, mentre di notte con Jay Cassidy assemblavamo scene e musica, mi sono ritrovato ad attingere sempre più spesso alla musica di Michael Brook, che era quella che, da un punto di vista sonoro, mi sembrava più giusta. Poi, il nostro montatore del suono, Martin Hernandez, ci ha consigliato Kaki King, io l’ho ascoltata, e l’ho voluta con noi. Dopodiché, ho chiesto a Eddie di leggere il libro. Lui lo ha fatto e si è subito messo a scrivere canzoni, e non solo canzoni, anche pezzi strumentali. Alla fine, Michael, Eddie e Charlie Musselwhite hanno fatto qualche seduta di registrazione a Seattle, e la colonna sonora era fatta.

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