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cultura dell'immagine e della parola

Intervista a Davide Ferrario

Tra commedie e documentari, continua il viaggio da protagonista del cinema italiano per Davide Ferrario, alle prese con la ricostruzione del ritorno di Primo Levi da un lager nazista in La strada di Levi.

Come ha avuto l’idea di La strada di Levi?

A dire il vero, è stato Marco Belpoliti a propormela. Ci conoscevamo da qualche tempo e Marco aveva apprezzato i miei documentari “on the road”. I miei documentari si aprono al non-previsto, agli incontri, agli avvenimenti inattesi. Belpoliti pensava che potessi essere il regista adatto per qualcosa che aveva in mente fin da quando aveva iniziato il lavoro di curatore delle opere di Primo Levi per Einaudi: un viaggio lungo il percorso compiuto da Levi com’è raccontato ne La tregua.

E qual è stata la sua reazione alla proposta?

Ne fui emozionato, e al contempo intimidito. È difficile prendere uno scrittore come Levi alla leggera. Sebbene, in un certo senso, Levi riesca a essere leggero anche nelle scene più spaventose. In ogni caso, si trattava di una grande sfida. Ciò che mi ha convinto è stata la considerazione che anche noi, oggi, ci troviamo in un periodo di tregua, come Levi quando scrisse il romanzo. Come lui allora, noi possiamo guardare a quanto è accaduto in Europa dalla caduta del comunismo e osservare come persone e culture stiano entrando in un nuovo secolo di incertezza. Ho compreso che il film avrebbe potuto essere su Levi e allo stesso tempo su di noi – ed è stato questo fatto a convincermi davvero.

Nei titoli di testa è molto chiaro che lei ha prodotto e diretto il film, che però è presentato come “un film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti”…

Sì, da un punto di vista strettamente professionale l’intervento di Marco non è quello di un co-regista o di un co-realizzatore “tecnico”… Ma, a parte suggerire l’idea ed essere l’esperto di Levi, Marco è stato un complice intellettuale, un compagno di viaggio, un’ispirazione culturale. Si può dire che – cinematograficamente parlando – il film è mio. Ma intellettualmente è di tutti e due. Questo spiega l’apparente contraddizione.

È molto interessante vedere come le parole di Primo Levi si integrino quasi alla perfezione con le immagini. C’era una sceneggiatura alla base delle riprese ed è poi andato alla ricerca di immagini adatte? O, semplicemente, dopo le riprese, si sono rintracciate le parti del romanzo più adatte?

Questo è un argomento particolarmente interessante. Io stesso non saprei dire cos’è venuto prima. Dopo aver trovato le locations, Marco ed io abbiamo concepito un’idea generale della struttura del film: avere un “tema” specifico per ogni paese attraversato, ad esempio. Ma in realtà, quando abbiamo girato, le cose sono accadute al di là di una rigida pianificazione. Avevo sempre con me il libro di Levi e le due esperienze, vedere e leggere, sono state quasi sempre simultanee e dialettiche. E io credo al destino. Un esempio: c’erano due temi che volevo affrontare in Bielorussia: la bellezza della natura, che fece riconciliare Levi con l’universo dopo l’esperienza di Auschwitz; e il controllo politico del regime sulla vita delle persone, oggi. Il modo più semplice e banale avrebbe potuto essere quello di filmare un paesaggio meraviglioso e poi intervistare un dissidente che ci raccontasse come le cose, sotto Lukacenko, vadano male. Ma quando siamo stati portati via dal KGB del posto, mentre ci trovavamo in un villaggio visitato da Levi, mi resi subito conto che quello [img4]sarebbe stato il modo di raccontare la storia –girando cioè quello che stava accadendo alla troupe, in vero stile cinéma-verité. Niente avrebbe potuto illustrare meglio la situazione. Allo stesso tempo, dopo aver passato qualche giorno con gli abitanti del villaggio, inclusi i rappresentanti del KGB, tutti noi concordavamo assolutamente con quanto aveva scritto Levi su di loro. Anche noi eravamo commossi dalla loro bontà d’animo, il che rendeva surreale la loro condizione. E questo è qualcosa che non avrei mai potuto pianificare. La maggior parte delle cose, nel film, sono accadute in questo modo, semplicemente stando sempre pronti ad afferrare la chance di una storia o di un incontro. E poi, per armonizzare tutto, è stata come sempre essenziale la collaborazione con Claudio Cormio, un montatore senza il quale mi è ormai difficile immaginare di lavorare.

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